Che ti ho fatto di male perché tu sia sincero con me? elogio dell'ipocrisia

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Che ti ho fatto di male perché tu sia sincero con me? elogio dell'ipocrisia

io sto con gli oncologi pietosi,gli avvocati ottimisti,
ottimisti,
le
amanti
soddisfatte.
È
davvero
necessario
che
alle
parole
«ti
amo»
corrisponda
sempre
un
sentimento
autentico
e
incorrotto?

Tanti anni fa, nel dedalo di viuzze che ancora oggi compongono il vecchio ghetto di Roma, si aggirava una signora un po’ stramba a cui nessuno rivolgeva la parola. Si diceva fosse stata una ragazza spigliata, sbarazzina, straordinariamente procace. Qualcosa doveva essere andato storto se la sua occupazione odierna consisteva nel battere le vie del ghetto con un cane immaginario al guinzaglio. Lo vezzeggiava, lo rimbrottava continuamente, suscitando la costernazione dei passanti. Quando la vidi per la prima volta stavo accompagnando mio nonno da un cliente. Ero abbastanza piccolo da trovare sbalorditiva la vista di una signora che parla con un cane inesistente. Immaginate allora il mio stupore quando mio nonno si chinò sull’invisibile bestiolina chiedendo con disinvoltura: «Come si chiama questo adorabile cagnetto?». «Si chiama Zeta».

Ho un ricordo abbastanza preciso della mia indignazione. Come poteva mio nonno farsi beffe della follia di un’alienata? Non aveva alcun rispetto per lei? Cosa lo aveva indotto a un così impudente gesto di scherno? Pochi giorni dopo, mio nonno ed io ci imbattemmo ancora nella signora. Stavolta fu lei ad avvicinarsi e a sorriderci. «Mi scusi, dottor Piperno, Zeta voleva farle le feste!». Fu allora che capii che la sollecitudine con cui mio nonno aveva assecondato la pazzia della signora non aveva l’intento derisorio che le avevo attribuito. Era un semplice disinteressato gesto di cortesia.

Passa qualche anno. Sono vicino alla laurea. La mia arroganza trae linfa dal carisma sessuale conferitomi dalla mia nuova ragazza. È molto carina, ci adoriamo. Una sera siamo seduti al tavolo di una pizzeria in Prati quando entra una mia compagna di classe che ai tempi del liceo mi piaceva parecchio. Mi alzo e corro a salutarla. Quando mi risiedo, la mia ragazza, piuttosto immusonita, mi dice: «Non pensavo ti piacessero ragazze del genere». La gelosia è la sua debolezza. Ecco perché dovrei rassicurarla. Dirle che non mi piace alcun genere di ragazza, perché a me piace solo lei. E invece mi metto lì a concionare. Non solo mi piacciono quel genere di ragazze lì, ma anche un’altra dozzina di generi che lei non può neppure immaginare. Poi alzo il tiro, snocciolando verità a buon mercato: la monogamia non ha senso, è un’impostura puritana; tutti siamo potenziali adulteri, soprattutto quelli che dicono di non esserlo. La foga oratoria trova requie solo alla comparsa della prima lacrima sulla guancia della mia ragazza. L’ho insultata. L’ho resa inutilmente infelice. L’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo.

Sono solo due esempi, tratti dalla mia esperienza, che mostrano in modo plastico quanto la sincerità sia sopravvalutata. Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini del conferenziere. Per non dire di quelli che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio («sembravano felici»). Mi fa infuriare la finta coscienza immacolata, la malafede travestita da buonafede. Trovo volgare la retorica del pane al pane. E invece ho un debole per le ragazze che dopo il sesso ti dicono che non è mai stato così bello, per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Adoro gli ipocriti. Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato.

Il dilemma del Seicento (e di oggi)
A proposito di grandi scrittori francesi, è ora di interpellare Molière. Un vecchio adagio sostiene che sia lui il fustigatore di ipocriti per antonomasia. Le cose stanno davvero così? Forse occorre ricordare che Molière è un uomo del Seicento, il secolo in cui la dialettica tra sincerità e ipocrisia raggiunge un apice mai più eguagliato. Che cosa è meglio: intraprendere la via diretta della sincerità o quella tortuosa dell’ipocrisia? Nel Seicento ogni cosa esprime questo dilemma: agli alfieri della dissimulazione si oppongono i moralisti classici; ai grandi conversatori replicano silenziosi gli eremiti; lo scintillio della Corte è minacciato dalle tenebre di Port Royal; il bigottismo cattolico ingaggia una lotta senza quartiere contro il giansenismo… È questo il contesto storico in cui opera uno dei più grandi geni comici di ogni tempo. Ecco il mondo di Molière. Del resto, lui conosce la corte, ne fa parte, godendone i frutti prelibati. Malgrado non faccia altro che sferzare i costumi dell’ipocrita società in cui vive, neanche Molière è in grado di risolvere, una volta per sempre, la controversia: che cosa scegliere tra sincerità e ipocrisia? Nel Tartufo Molière sembra avere le idee chiare. Ancor prima che Tartufo arrivi in scena (e come altri grandi eroi della letteratura — Emma Bovary, Stavrogin, Gatsby — Tartufo ama farsi attendere), noi già sappiamo di che pasta è fatto. È un farabutto, un impostore, un ipocrita patentato. Lui e le sue maniere affettate, lui e la sua devozione fasulla. Per non dire del modo in cui ha plagiato il ricco Orgone, per piazzarglisi in casa e vivere impunemente alle sue spalle. Cleante, cognato di Orgone, definisce la religiosità di Tartufo «vana vernice di uno zelo specioso». E mi pare che interpreti a perfezione il pensiero di Molière.

Le cose si complicano però se diamo un’occhiata a Il misantropo. In quella meravigliosa pièce (forse l’apice dell’arte di Molière), Alceste, il protagonista, non si fa attendere come Tartufo. Si apre il sipario ed eccolo già lì a discutere bellicosamente con il suo amico Filinte. L’argomento della disputa è per l’appunto l’ipocrisia. Alceste è un feroce oppositore di qualsiasi mistificazione. Un alfiere incorrotto dell’autenticità. Per lui non esiste verità abbastanza scomoda da essere celata all’interlocutore. Se un pessimo poeta ti implora di giudicare i suoi versi, devi gridargli in faccia che fanno schifo. Se una signora ti chiede un parere sulla nuova messa in piega, devi dirle che di acconciature ridicole ne hai viste, ma che questa le supera tutte. Alceste disprezza gli «inventori di inchini», i «porgitori garbati di frivole carezze», i «cortesi dicitori d’inutili parole», insomma gli ipocriti. La sua intransigenza, però, ci appare isterica, dettata da sentimenti risentiti e biliosi. Tanto quanto le argomentazioni del suo amico Filinte ci sembrano ispirate da un buonsenso benevolo. Perché insultare gratuitamente l’interlocutore, se hai la possibilità di proteggerlo dalle sue stesse debolezze? Ha senso andare da una tredicenne sovrappeso e dirle che sarebbe il caso di mettersi a dieta? Perché non rassicurare tuo marito sul fatto che anche stempiato è ancora un bel tipo? E soprattutto perché dire a un malato terminale che ha i giorni contati? Perché conferire tanto prestigio alla verità? Chi lo dice che la verità meriti così tanti riguardi? «Ci sono casi — dice Filinte all’amico — in cui la totale franchezza risulterebbe buffa e maltollerata». A volte occorre «dissimulare quel che abbiamo nel cuore». Ecco, mi sembra che stavolta sia più difficile stabilire per chi parteggi Molière. È del tutto evidente che tra l’ipocrisia a fin di male di Tartufo e quella a fin di bene di Filinte ci sia una bella differenza.

Tutti odiano Karenin
E che dire dell’ipocrisia di Karenin, il marito dell’assai più celebre Anna Karenina? Si tratta di ipocrisia a fin di bene o a fin di male?

Difficile non lasciarsi influenzare dal moralismo tolstoiano. È lui, Tolstoj, a menare le danze dei nostri sentimenti. È evidente che condivide con la sua eroina l’odio per l’aristocrazia zarista: frivola, conformista, filistea. Di solito Tolstoj si sforza di mostrarci il lato umano dei personaggi negativi. Con Karenin non si sforza poi molto. Non c’è tratto nel fisico e nel carattere di Karenin che non susciti ribrezzo. L’imperturbabilità, la costumatezza, le risposte taglienti, l’affettività tenuta a bada da ironia e senso del decoro. E poi quelle orecchie troppo grandi che Anna d’un tratto nota, e che il lettore non potrà più scordare. Quelle orecchie, come il piatto sporco di Charles Bovary, giustificano qualsiasi adulterio. La prima cosa che Anna avverte, quando — dopo una burrascosa notte in treno — trova il marito ad attenderla sulla banchina, è un sentimento di «finzione».

Proprio come Tartufo, Karenin appare in scena già con le stigmate dell’ipocrita, dalle quali, peraltro, non potrà più liberarsi. Quando la moglie inizia a compromettersi, Karenin non sa che fare. È sconvolto. Lui che ha sempre deprecato la gelosia si scopre geloso. Lui che ha sempre saputo affrontare le avversità si sente impotente. L’immagine che Tolstoj utilizza per raccontarci il dramma interiore di Karenin è splendidamente efficace.

È la prima volta, scrive Tolstoj, che Karenin si trova «faccia a faccia con la vita». La vita è l’ipotesi stessa che Anna sia in procinto di tradirlo. Ed è un’ipotesi che il mondo lindo e ordinato di Karenin si rifiuta di contemplare. Del resto, è tipico dell’ipocrita negare alla vita il diritto di esprimersi liberamente, capricciosamente. Così come è tipico dell’ipocrita nascondere a se stesso e agli altri ciò che la vita rivela senza ritegno. Il discorso che Karenin fa alla moglie è un saggio ineguagliabile di ipocrisia. Per metterla in guardia, lui chiama in causa le leggi della convenienza, le regole della società, il legame coniugale sancito da Dio. En passant, allude anche al suo amore per lei, ma lo fa con una freddezza che non persuade né lei, tanto meno il lettore.

Il lettore sobillato
Ed eccoci al punto. Il vero problema di Karenin è che lui non riesce a convincere il lettore. Il quale, sobillato da Tolstoj, si ritrova a odiare Karenin con tutte le forze. Eppure, a ben guardare, il discorso di Karenin ad Anna, e il conseguente contegno da lui assunto, è civile e pieno di buonsenso. Karenin, consapevole di non poter agire sui sentimenti della moglie, la invita a dissimularli con maggior cura. Non dico che la sprona a un adulterio discreto (ipocrita?), ma poco ci manca. Ed è proprio questa l’ipocrisia esecrata da Tolstoj e dal lettore. Lo stesso lettore che, alle prese con le cose della sua vita, è solito comportarsi come Karenin. Che non sia questa l’ipocrisia del lettore di cui parlava Baudelaire? Il lettore si aspetta dagli eroi dei romanzi un contegno onesto che lui stesso è incapace di adottare. Il lettore non perdona a un personaggio ciò che di solito perdona a un amico, o a se stesso.

Ecco ciò che distingue la vita dalla letteratura. La letteratura aborrisce l’ipocrisia. La vita non può farne a meno. Lo scrittore s’impegna a indicare, con mezzi espressivi adeguati, l’ipocrita di turno, il lettore si impegna a riconoscerlo immediatamente e a detestarlo per sempre. Il lettore è insaziabile: desidera che l’ipocrita subisca lo stesso trattamento che Dante riserva a Caifa: crocifisso in terra e condannato per l’eternità a essere calpestato dai suoi pari.

L’esperienza di lettore ha fatto di me un grande odiatore. Peccato che gli oggetti di tanto odio per lo più non esistano. Odio Iago e Madame de Merteuil; provo un profondo disprezzo per Mr Collins, Mr Podsnap e Monsieur Homais; ho un conto in sospeso con Madame Verdurin e tutto il suo maledetto clan. Possibile che solo ora mi accorga che non è la malvagità ciò che assimila questi personaggi, bensì l’ipocrisia? Evidentemente il solo ambito in cui sono capace di esercitare una certa intransigenza morale è la letteratura. Nella cosiddetta vita di tutti giorni la verità mi appare così fastidiosa, così losca che preferisco non averci nulla a che fare. È vero, ci sono istituzioni che difendono il diritto di conoscere la verità, ma chi tutela il diritto di ignorarla? È davvero così impellente informare un amico dei tradimenti della moglie? È necessario che le parole «ti amo» corrispondano sempre a un sentimento autentico e incorrotto? Ripenso ancora a mio nonno. Una volta, a una cena, lo sentii elogiare la bellezza degli occhi di una donna la cui bruttezza era proverbiale, e vidi quella donna arrossire di piacere. C’è qualcosa di civile, di tenero nella piaggeria.

Alessandro Piperno
 

free

Escluso
brava Minervuccia, anche secondo me una "sana" ipocrisia non è affatto disdicevole, anzi

viva il cattolicesimo!:mrgreen::mrgreen::mrgreen:
 
non se ne può più di gente che della sincerità ne fa scempio nascondendo invidie, maleducazione e via con il tango
brava Minervuccia, anche secondo me una "sana" ipocrisia non è affatto disdicevole, anzi

viva il cattolicesimo!:mrgreen::mrgreen::mrgreen:
 

lolapal

Utente reloaded
A mio modesto avviso, la sincerità che non sia malafede è quella che porta rispetto per le diversità dell'altro e che porti anche un messaggio di accettazione. E poi, penso che prima di tutto bisogna essere sinceri con se stessi prima di esserlo con gli altri. E credo che spesso si confonda la "sincerità" con la "critica non costruttiva", quella fine a se stessa, quella, appunto, fatta all'altro ma non a sé, fatta per mettere l'altro in difficoltà.
Non so, ci sono tante sfaccettature. Anche l'articolo che hai postato, Min, porta tanti esempi e situazioni diverse... comunque, molto interessante...

:)
 

Brunetta

Utente di lunga data
L'interessante lettura è un brano ben costruito.
Giustamente fa notare che l'autore, nel caso citato Tolstoj, ma in pratica anche l'autore stesso del brano possa abilmente portare a odiare l'ipocrisia che è dentro di noi.
Io sono favorevole all'ipocrisia del nonno che era gentilezza d'animo.
Gli altri casi li vedo come solo ricerca del quieto vivere, non certo delicatezza nei confronti di chi meriterebbe sincerità: un coniuge, un amico.
 

Innominata

Utente che predica bene
Forse a volte viene chiamata verita' quella che in realta' e' una forma di incontinenza. C'e' un certo primitivo e regressivo piacere in certe operazioni di sgombero, in questo caso ha pure ufficialmente una connotazione morale, figuriamoci! ovviamente diverso e' il caso in cui si accetta e si parte dal presupposto che la sincerita' non corrisponde sempre automaticamente alla verita', la quale non e' ne' una cosa semplice ne' lineare ne' ha pretese di cristallinita' come noi preferiamo credere. Meno la sincerita' e' pletorica, piu' e' umile, dubbiosa e rispettosa e curiosa, piu si avvicina alla verita', con grande vantaggio di tutti!
 

Nicka

Capra Espiatrice
Ma è sempre e solo ipocrisia? O magari si tratta di diplomazia? E vogliamo parlare anche di chi usa filtri nel parlare?
La sincerità nuda e cruda la apprezzo, ma un filtro o il collegare il cervello alla bocca prima di parlare lo apprezzo anche di più.
Ci sono modi e modi per essere sinceri, senza per questo scadere nella mera ipocrisia...
 

tullio

Utente di lunga data
Bellissimo saggio: non lo conoscevo. Grazie di averlo proposto.

La verità è collegata al rispetto degli altri. Mentire deliberatamente significa ridurre il rispetto per gli altri, trattarli da cose, sottovalutare la loro autonomia e umanità. Tuttavia molto è stabilito dal contesto: dire al malato irrimediabile che ha mezz'ora di vita non significa provare rispetto per lui bensì calcolare la sua vita con il tempo meccanico dell'orologio e, in definitiva, della produzione. Spaventare un bambino con una verità orribile non è trattarlo con il rispetto che merita. Non la menzogna ma coprire la verità ha sovente un senso, quello di risurre la sofferenza inutile.
Il guaio è che non abbiamo unità di misura certe: la persona solerte che mi comunica che alla conferenza guardavano tutti solo i miei denti mi irrita. L'amico caro che, alla medesima conferenza, mi dice che sono caduto in varie contraddizioni (mi irrita egualmente ma) lo apprezzo. Non dirò mai all'amico di aver visto la moglie con un altro e so che la persona solerte che avvisa me di aver visto la mia di moglie con altri, lo fa non per affetto ma per malizia. Tuttavia pur disprezzando la sua malizia terrò conto della sua informazione.
Il limite tra verità e malafede, tra vantaggio della verità e ipocrisia immorale non è sempre chiaro. Neanche in noi stessi. Davvero qui c'è qualcuno che dice sempre (cioè in tutte le occasioni e non solo a posteriori) a se stesso la verità?
 

Spider

Escluso
l'elogio dell'ipocrisia.
già.
bella.
come mi sento al sicuro.
ma non bisogna mai dimenticare la forza e il potere della verità.
cosa sarebbe un artista ad esempio, senza la sua verità?
Pollok, Pirandello, Van gogh...
niente.
ma anche un comune mortale senza la sua verità,
senza la sua espressione, sarebbe niente,
infatti quello che siamo.
nella verità si cela un pensiero, un ragionamento, un esigenza che esula dalle normali argomentazioni.
l'ipocrisia la riservi a chi notoriamente reputi inferiore o capace di non comprendere.

La verità è nuda e cruda,
secondo le occasioni,
... sicuramente ti fa riflettere.
 
l'elogio dell'ipocrisia.
già.
bella.
come mi sento al sicuro.
ma non bisogna mai dimenticare la forza e il potere della verità.
cosa sarebbe un artista ad esempio, senza la sua verità?
Pollok, Pirandello, Van gogh...
niente.
ma anche un comune mortale senza la sua verità,
senza la sua espressione, sarebbe niente,
infatti quello che siamo.
nella verità si cela un pensiero, un ragionamento, un esigenza che esula dalle normali argomentazioni.
l'ipocrisia la riservi a chi notoriamente reputi inferiore o capace di non comprendere.

La verità è nuda e cruda,
secondo le occasioni,
... sicuramente ti fa riflettere.
sei tornato :amici:
 

Brunetta

Utente di lunga data
l'elogio dell'ipocrisia.
già.
bella.
come mi sento al sicuro.
ma non bisogna mai dimenticare la forza e il potere della verità.
cosa sarebbe un artista ad esempio, senza la sua verità?
Pollok, Pirandello, Van gogh...
niente.
ma anche un comune mortale senza la sua verità,
senza la sua espressione, sarebbe niente,
infatti quello che siamo.
nella verità si cela un pensiero, un ragionamento, un esigenza che esula dalle normali argomentazioni.
l'ipocrisia la riservi a chi notoriamente reputi inferiore o capace di non comprendere.

La verità è nuda e cruda,
secondo le occasioni,
... sicuramente ti fa riflettere.
Bentornato.

La verità è una cosa, quel che noi crediamo verità e ciò che gli altri credono un'altra cosa ancora.
Mi sento Pirandello.
A parte i casi segnalati da Tullio, la verità è sempre una buona cosa, con il dovuto tatto e che sia una descrizione e non una interpretazione.
 

disincantata

Utente di lunga data
Bellissimo saggio: non lo conoscevo. Grazie di averlo proposto.

La verità è collegata al rispetto degli altri. Mentire deliberatamente significa ridurre il rispetto per gli altri, trattarli da cose, sottovalutare la loro autonomia e umanità. Tuttavia molto è stabilito dal contesto: dire al malato irrimediabile che ha mezz'ora di vita non significa provare rispetto per lui bensì calcolare la sua vita con il tempo meccanico dell'orologio e, in definitiva, della produzione. Spaventare un bambino con una verità orribile non è trattarlo con il rispetto che merita. Non la menzogna ma coprire la verità ha sovente un senso, quello di risurre la sofferenza inutile.
Il guaio è che non abbiamo unità di misura certe: la persona solerte che mi comunica che alla conferenza guardavano tutti solo i miei denti mi irrita. L'amico caro che, alla medesima conferenza, mi dice che sono caduto in varie contraddizioni (mi irrita egualmente ma) lo apprezzo. Non dirò mai all'amico di aver visto la moglie con un altro e so che la persona solerte che avvisa me di aver visto la mia di moglie con altri, lo fa non per affetto ma per malizia. Tuttavia pur disprezzando la sua malizia terrò conto della sua informazione.
Il limite tra verità e malafede, tra vantaggio della verità e ipocrisia immorale non è sempre chiaro. Neanche in noi stessi. Davvero qui c'è qualcuno che dice sempre (cioè in tutte le occasioni e non solo a posteriori) a se stesso la verità?
Siamo tutti diversi.

Io avrei fatto un monumento a chiunque mi avesse aperto gli occhi sul tradimento di mio marito.

non me la sono presa con mia figlia che sapeva perché ho capito il suo imbarazzo ed anche perché purtroppo l'ha scoperto la foglia 'sbagliata' , l'altra avrebbe ribaltato il padre , ma fosse stata una mia amica non le avrei più parlato. Mai più.


Altra cosa se non mi dici che ho le rughe o i capelli bianchi. ....ma un amico ti salva. Per me.
 

Spider

Escluso
Bentornato.

La verità è una cosa, quel che noi crediamo verità e ciò che gli altri credono un'altra cosa ancora.
Mi sento Pirandello.
A parte i casi segnalati da Tullio, la verità è sempre una buona cosa, con il dovuto tatto e che sia una descrizione e non una interpretazione.
ciao,
dici che mi bocciano, dopo 10 giorni di sospensione?????:p:p:p:p

comunque...
la verità non è mai una sola, appunto è interpretazione,
difficile descrivere.
io ti vedo mora, qualcuno vede dei riflessi biondi...
ma questa interpretazione è la mia verità.
dolorosa o bella secondo i casi.
certo è che solo la verità aiuta a crescere,
a riflettere,
a migliorare...sempre se quello è il vero intento.
 

Brunetta

Utente di lunga data
ciao,
dici che mi bocciano, dopo 10 giorni di sospensione?????:p:p:p:p

comunque...
la verità non è mai una sola, appunto è interpretazione,
difficile descrivere.
io ti vedo mora, qualcuno vede dei riflessi biondi...
ma questa interpretazione è la mia verità.
dolorosa o bella secondo i casi.
certo è che solo la verità aiuta a crescere,
a riflettere,
a migliorare...sempre se quello è il vero intento.
Facendo un esempio concreto: se uno mi dice "tuo marito ha un'amante" è un'interpretazione; se mi dice "ho visto tuo marito mano nella mano con una bionda" è verità.
Se la bionda è sua sorella starò tranquilla, se no io sceglierò cosa pensare.
 

Spider

Escluso
Facendo un esempio concreto: se uno mi dice "tuo marito ha un'amante" è un'interpretazione; se mi dice "ho visto tuo marito mano nella mano con una bionda" è verità.
Se la bionda è sua sorella starò tranquilla, se no io sceglierò cosa pensare.

resta che, vuoi o non vuoi ci devi riflettere...
pensa se ti avessero detto niente.
poi fai i tuoi calcoli, spero non terra-terra.

allora , ovvio che io interpreto, ma sei tu dalle mie verità che devi tirare le tue conclusioni.
...appunto Pirandello...ma anche Pollok...ma anche tutta l'arte.
tutta l'arte ha sempre interpretato la verità...chi ci vede solo un fiore,
chi ci vede un messaggio, una nuova emancipazione.
eppure era solo un interpretazione!!!!
adesso dimmi cosa sono,
i girasoli di Van gogh...?
verità?
Gli artisti hanno sempre sostenuto,
la verità.
 

Buscopann

Utente non raggiungibile
Bentornato aracnide!
Contento di rileggerti. Regalaci la tua parte migliore, quella dj questo tuo ultimo post :up:

Buscopann
 
io sto con gli oncologi pietosi,gli avvocati ottimisti,
ottimisti,
le
amanti
soddisfatte.
È
davvero
necessario
che
alle
parole
«ti
amo»
corrisponda
sempre
un
sentimento
autentico
e
incorrotto?

Tanti anni fa, nel dedalo di viuzze che ancora oggi compongono il vecchio ghetto di Roma, si aggirava una signora un po’ stramba a cui nessuno rivolgeva la parola. Si diceva fosse stata una ragazza spigliata, sbarazzina, straordinariamente procace. Qualcosa doveva essere andato storto se la sua occupazione odierna consisteva nel battere le vie del ghetto con un cane immaginario al guinzaglio. Lo vezzeggiava, lo rimbrottava continuamente, suscitando la costernazione dei passanti. Quando la vidi per la prima volta stavo accompagnando mio nonno da un cliente. Ero abbastanza piccolo da trovare sbalorditiva la vista di una signora che parla con un cane inesistente. Immaginate allora il mio stupore quando mio nonno si chinò sull’invisibile bestiolina chiedendo con disinvoltura: «Come si chiama questo adorabile cagnetto?». «Si chiama Zeta».

Ho un ricordo abbastanza preciso della mia indignazione. Come poteva mio nonno farsi beffe della follia di un’alienata? Non aveva alcun rispetto per lei? Cosa lo aveva indotto a un così impudente gesto di scherno? Pochi giorni dopo, mio nonno ed io ci imbattemmo ancora nella signora. Stavolta fu lei ad avvicinarsi e a sorriderci. «Mi scusi, dottor Piperno, Zeta voleva farle le feste!». Fu allora che capii che la sollecitudine con cui mio nonno aveva assecondato la pazzia della signora non aveva l’intento derisorio che le avevo attribuito. Era un semplice disinteressato gesto di cortesia.

Passa qualche anno. Sono vicino alla laurea. La mia arroganza trae linfa dal carisma sessuale conferitomi dalla mia nuova ragazza. È molto carina, ci adoriamo. Una sera siamo seduti al tavolo di una pizzeria in Prati quando entra una mia compagna di classe che ai tempi del liceo mi piaceva parecchio. Mi alzo e corro a salutarla. Quando mi risiedo, la mia ragazza, piuttosto immusonita, mi dice: «Non pensavo ti piacessero ragazze del genere». La gelosia è la sua debolezza. Ecco perché dovrei rassicurarla. Dirle che non mi piace alcun genere di ragazza, perché a me piace solo lei. E invece mi metto lì a concionare. Non solo mi piacciono quel genere di ragazze lì, ma anche un’altra dozzina di generi che lei non può neppure immaginare. Poi alzo il tiro, snocciolando verità a buon mercato: la monogamia non ha senso, è un’impostura puritana; tutti siamo potenziali adulteri, soprattutto quelli che dicono di non esserlo. La foga oratoria trova requie solo alla comparsa della prima lacrima sulla guancia della mia ragazza. L’ho insultata. L’ho resa inutilmente infelice. L’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo.

Sono solo due esempi, tratti dalla mia esperienza, che mostrano in modo plastico quanto la sincerità sia sopravvalutata. Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini del conferenziere. Per non dire di quelli che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio («sembravano felici»). Mi fa infuriare la finta coscienza immacolata, la malafede travestita da buonafede. Trovo volgare la retorica del pane al pane. E invece ho un debole per le ragazze che dopo il sesso ti dicono che non è mai stato così bello, per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Adoro gli ipocriti. Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato.

Il dilemma del Seicento (e di oggi)
A proposito di grandi scrittori francesi, è ora di interpellare Molière. Un vecchio adagio sostiene che sia lui il fustigatore di ipocriti per antonomasia. Le cose stanno davvero così? Forse occorre ricordare che Molière è un uomo del Seicento, il secolo in cui la dialettica tra sincerità e ipocrisia raggiunge un apice mai più eguagliato. Che cosa è meglio: intraprendere la via diretta della sincerità o quella tortuosa dell’ipocrisia? Nel Seicento ogni cosa esprime questo dilemma: agli alfieri della dissimulazione si oppongono i moralisti classici; ai grandi conversatori replicano silenziosi gli eremiti; lo scintillio della Corte è minacciato dalle tenebre di Port Royal; il bigottismo cattolico ingaggia una lotta senza quartiere contro il giansenismo… È questo il contesto storico in cui opera uno dei più grandi geni comici di ogni tempo. Ecco il mondo di Molière. Del resto, lui conosce la corte, ne fa parte, godendone i frutti prelibati. Malgrado non faccia altro che sferzare i costumi dell’ipocrita società in cui vive, neanche Molière è in grado di risolvere, una volta per sempre, la controversia: che cosa scegliere tra sincerità e ipocrisia? Nel Tartufo Molière sembra avere le idee chiare. Ancor prima che Tartufo arrivi in scena (e come altri grandi eroi della letteratura — Emma Bovary, Stavrogin, Gatsby — Tartufo ama farsi attendere), noi già sappiamo di che pasta è fatto. È un farabutto, un impostore, un ipocrita patentato. Lui e le sue maniere affettate, lui e la sua devozione fasulla. Per non dire del modo in cui ha plagiato il ricco Orgone, per piazzarglisi in casa e vivere impunemente alle sue spalle. Cleante, cognato di Orgone, definisce la religiosità di Tartufo «vana vernice di uno zelo specioso». E mi pare che interpreti a perfezione il pensiero di Molière.

Le cose si complicano però se diamo un’occhiata a Il misantropo. In quella meravigliosa pièce (forse l’apice dell’arte di Molière), Alceste, il protagonista, non si fa attendere come Tartufo. Si apre il sipario ed eccolo già lì a discutere bellicosamente con il suo amico Filinte. L’argomento della disputa è per l’appunto l’ipocrisia. Alceste è un feroce oppositore di qualsiasi mistificazione. Un alfiere incorrotto dell’autenticità. Per lui non esiste verità abbastanza scomoda da essere celata all’interlocutore. Se un pessimo poeta ti implora di giudicare i suoi versi, devi gridargli in faccia che fanno schifo. Se una signora ti chiede un parere sulla nuova messa in piega, devi dirle che di acconciature ridicole ne hai viste, ma che questa le supera tutte. Alceste disprezza gli «inventori di inchini», i «porgitori garbati di frivole carezze», i «cortesi dicitori d’inutili parole», insomma gli ipocriti. La sua intransigenza, però, ci appare isterica, dettata da sentimenti risentiti e biliosi. Tanto quanto le argomentazioni del suo amico Filinte ci sembrano ispirate da un buonsenso benevolo. Perché insultare gratuitamente l’interlocutore, se hai la possibilità di proteggerlo dalle sue stesse debolezze? Ha senso andare da una tredicenne sovrappeso e dirle che sarebbe il caso di mettersi a dieta? Perché non rassicurare tuo marito sul fatto che anche stempiato è ancora un bel tipo? E soprattutto perché dire a un malato terminale che ha i giorni contati? Perché conferire tanto prestigio alla verità? Chi lo dice che la verità meriti così tanti riguardi? «Ci sono casi — dice Filinte all’amico — in cui la totale franchezza risulterebbe buffa e maltollerata». A volte occorre «dissimulare quel che abbiamo nel cuore». Ecco, mi sembra che stavolta sia più difficile stabilire per chi parteggi Molière. È del tutto evidente che tra l’ipocrisia a fin di male di Tartufo e quella a fin di bene di Filinte ci sia una bella differenza.

Tutti odiano Karenin
E che dire dell’ipocrisia di Karenin, il marito dell’assai più celebre Anna Karenina? Si tratta di ipocrisia a fin di bene o a fin di male?

Difficile non lasciarsi influenzare dal moralismo tolstoiano. È lui, Tolstoj, a menare le danze dei nostri sentimenti. È evidente che condivide con la sua eroina l’odio per l’aristocrazia zarista: frivola, conformista, filistea. Di solito Tolstoj si sforza di mostrarci il lato umano dei personaggi negativi. Con Karenin non si sforza poi molto. Non c’è tratto nel fisico e nel carattere di Karenin che non susciti ribrezzo. L’imperturbabilità, la costumatezza, le risposte taglienti, l’affettività tenuta a bada da ironia e senso del decoro. E poi quelle orecchie troppo grandi che Anna d’un tratto nota, e che il lettore non potrà più scordare. Quelle orecchie, come il piatto sporco di Charles Bovary, giustificano qualsiasi adulterio. La prima cosa che Anna avverte, quando — dopo una burrascosa notte in treno — trova il marito ad attenderla sulla banchina, è un sentimento di «finzione».

Proprio come Tartufo, Karenin appare in scena già con le stigmate dell’ipocrita, dalle quali, peraltro, non potrà più liberarsi. Quando la moglie inizia a compromettersi, Karenin non sa che fare. È sconvolto. Lui che ha sempre deprecato la gelosia si scopre geloso. Lui che ha sempre saputo affrontare le avversità si sente impotente. L’immagine che Tolstoj utilizza per raccontarci il dramma interiore di Karenin è splendidamente efficace.

È la prima volta, scrive Tolstoj, che Karenin si trova «faccia a faccia con la vita». La vita è l’ipotesi stessa che Anna sia in procinto di tradirlo. Ed è un’ipotesi che il mondo lindo e ordinato di Karenin si rifiuta di contemplare. Del resto, è tipico dell’ipocrita negare alla vita il diritto di esprimersi liberamente, capricciosamente. Così come è tipico dell’ipocrita nascondere a se stesso e agli altri ciò che la vita rivela senza ritegno. Il discorso che Karenin fa alla moglie è un saggio ineguagliabile di ipocrisia. Per metterla in guardia, lui chiama in causa le leggi della convenienza, le regole della società, il legame coniugale sancito da Dio. En passant, allude anche al suo amore per lei, ma lo fa con una freddezza che non persuade né lei, tanto meno il lettore.

Il lettore sobillato
Ed eccoci al punto. Il vero problema di Karenin è che lui non riesce a convincere il lettore. Il quale, sobillato da Tolstoj, si ritrova a odiare Karenin con tutte le forze. Eppure, a ben guardare, il discorso di Karenin ad Anna, e il conseguente contegno da lui assunto, è civile e pieno di buonsenso. Karenin, consapevole di non poter agire sui sentimenti della moglie, la invita a dissimularli con maggior cura. Non dico che la sprona a un adulterio discreto (ipocrita?), ma poco ci manca. Ed è proprio questa l’ipocrisia esecrata da Tolstoj e dal lettore. Lo stesso lettore che, alle prese con le cose della sua vita, è solito comportarsi come Karenin. Che non sia questa l’ipocrisia del lettore di cui parlava Baudelaire? Il lettore si aspetta dagli eroi dei romanzi un contegno onesto che lui stesso è incapace di adottare. Il lettore non perdona a un personaggio ciò che di solito perdona a un amico, o a se stesso.

Ecco ciò che distingue la vita dalla letteratura. La letteratura aborrisce l’ipocrisia. La vita non può farne a meno. Lo scrittore s’impegna a indicare, con mezzi espressivi adeguati, l’ipocrita di turno, il lettore si impegna a riconoscerlo immediatamente e a detestarlo per sempre. Il lettore è insaziabile: desidera che l’ipocrita subisca lo stesso trattamento che Dante riserva a Caifa: crocifisso in terra e condannato per l’eternità a essere calpestato dai suoi pari.

L’esperienza di lettore ha fatto di me un grande odiatore. Peccato che gli oggetti di tanto odio per lo più non esistano. Odio Iago e Madame de Merteuil; provo un profondo disprezzo per Mr Collins, Mr Podsnap e Monsieur Homais; ho un conto in sospeso con Madame Verdurin e tutto il suo maledetto clan. Possibile che solo ora mi accorga che non è la malvagità ciò che assimila questi personaggi, bensì l’ipocrisia? Evidentemente il solo ambito in cui sono capace di esercitare una certa intransigenza morale è la letteratura. Nella cosiddetta vita di tutti giorni la verità mi appare così fastidiosa, così losca che preferisco non averci nulla a che fare. È vero, ci sono istituzioni che difendono il diritto di conoscere la verità, ma chi tutela il diritto di ignorarla? È davvero così impellente informare un amico dei tradimenti della moglie? È necessario che le parole «ti amo» corrispondano sempre a un sentimento autentico e incorrotto? Ripenso ancora a mio nonno. Una volta, a una cena, lo sentii elogiare la bellezza degli occhi di una donna la cui bruttezza era proverbiale, e vidi quella donna arrossire di piacere. C’è qualcosa di civile, di tenero nella piaggeria.

Alessandro Piperno
Ok ma non riesce a spiegare come una verità parziale assurta a verità assoluta porta il tristissimo nome di ideologia.
E francamente sto saggio mi sembra molto posticcio e pretestuoso.
miei due schei
 
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