Brunetta
Utente di lunga data
Quando veniamo a conoscenza di delitti in famiglia abbiamo istintivamente la reazione di pensare cose che ci fanno sentire distanti sia come vittima, sia come assassino da quella situazione che ha portato a quell’omicidio.
Quindi cerchiamo di rassicurarci magari definendo l’ambiente culturalmente e socialmente degradato o chi ha commesso il delitto pazzo o malvagio a pensiamo subito a punizioni esemplari, a volte a livello pre Codice di Hammurabi, che dimostrano una nostra identica violenza, ma giusta perché rivolta verso chi se lo merita.
Oggi ho sentito Simonetta Matone, giudice minorile (suppongo in pensione) e autrice di libri, stupirsi che l’ultimo delitto compiuto da una madre non sia maturato in un ambiente degradato. Ovviamente chi sceglie una carriera nell’ambito legale ha una idea giudicante, ma esprimeva, come fa sempre e come fanno sempre giudici e avvocati, una distanza “antropologica” da quei delitti.
La stessa cosa la fanno coloro che ricercano nel “patriarcato” la spiegazione dei femminicidi. Non è una spiegazione del tutto campata in aria, ma diventa assurda, quando non considera ciò che viene definito come patriarcato come uno degli aspetti culturali in cui si muovevano gli attori della vicenda.
Invece non è così (certo nei tribunali sì, ma perché siamo ancora primitivi) perché quei delitti, maturano dentro quelle persone in interazione con l’ambiente, ma riguardano il senso di frantumazione di se stessi.
Io credo che riguardi il senso della propria identità.
Sto leggendo molti libri sull’argomento.
La identità personale è il risultato di una molteplicità di relazioni famigliari e sociali complesse.
Se vediamo sgretolarsi la nostra identità su più aspetti perdiamo i riferimenti e possiamo reagire in modo aggressivo (anche senza arrivare alla violenza) nei confronti di chi individuiamo come minaccioso.
Quando si arriva a uccidere genitori, coniuge e figli è proprio quando gran parte della nostra identità è dipendente dal nostro valore (attribuito da noi stessi) ai ruoli di coniuge o genitore o figlio.
Quindi cerchiamo di rassicurarci magari definendo l’ambiente culturalmente e socialmente degradato o chi ha commesso il delitto pazzo o malvagio a pensiamo subito a punizioni esemplari, a volte a livello pre Codice di Hammurabi, che dimostrano una nostra identica violenza, ma giusta perché rivolta verso chi se lo merita.
Oggi ho sentito Simonetta Matone, giudice minorile (suppongo in pensione) e autrice di libri, stupirsi che l’ultimo delitto compiuto da una madre non sia maturato in un ambiente degradato. Ovviamente chi sceglie una carriera nell’ambito legale ha una idea giudicante, ma esprimeva, come fa sempre e come fanno sempre giudici e avvocati, una distanza “antropologica” da quei delitti.
La stessa cosa la fanno coloro che ricercano nel “patriarcato” la spiegazione dei femminicidi. Non è una spiegazione del tutto campata in aria, ma diventa assurda, quando non considera ciò che viene definito come patriarcato come uno degli aspetti culturali in cui si muovevano gli attori della vicenda.
Invece non è così (certo nei tribunali sì, ma perché siamo ancora primitivi) perché quei delitti, maturano dentro quelle persone in interazione con l’ambiente, ma riguardano il senso di frantumazione di se stessi.
Io credo che riguardi il senso della propria identità.
Sto leggendo molti libri sull’argomento.
La identità personale è il risultato di una molteplicità di relazioni famigliari e sociali complesse.
Se vediamo sgretolarsi la nostra identità su più aspetti perdiamo i riferimenti e possiamo reagire in modo aggressivo (anche senza arrivare alla violenza) nei confronti di chi individuiamo come minaccioso.
Quando si arriva a uccidere genitori, coniuge e figli è proprio quando gran parte della nostra identità è dipendente dal nostro valore (attribuito da noi stessi) ai ruoli di coniuge o genitore o figlio.