Arriva finalmente in Italia la Palma d’oro dell’ultimo festival di Cannes, Io, Daniel Blake. Una splendida rivendicazione identitaria contro lo schiacciamento degli individui operato da burocrazia, tecnocrazia e liberismo per rimettere al centro l’uomo con la u maiuscola.
Potrebbe essere una vita quieta in un quartiere popolare tutto sommato dignitoso, dai numerosi scorci graziosi. O sarebbe potuta essere? Lasciamo al lettore l’interrogativo in sospeso. Fin dall’inizio, Ken Loach delinea efficacemente in pochi tratti, o meglio in brevi sequenze, il carattere del protagonista, i suoi vicini, il suo ambiente.
Daniel Blake è un onesto falegname di 59 anni che deve andare per forza in pensione per un problema al cuore che gli impedisce lavori usuranti. Ma subito si scontra con un Moloch: la burocrazia britannica, ormai kafkiana stando alla rappresentazione offerta dal regista. L’atto d’accusa, esplicito, è contro le riforme sanzionatorie in ambito sociale dei tory (nel film è chiaramente citato e accusato Iain Duncan Smith, ministro del lavoro con David Cameron, quest’anno dimissionario, insieme alla Bedroom tax). Il parere del suo medico non vale. Vale invece quello di un’ignota “professionista” che nega a Blake il sussidio di disoccupazione obbligandolo a cercare lavoro, a scrivere un curriculum, a frequentare un workshop intimidatorio e ricattatorio su come si scrivono i curriculum.
Blake è frastornato, oppresso, avvilito, da telefonate, conversazioni, situate sempre sul confine labile tra consiglio e intimidazione. Intimidazione per farlo desistere dal rivendicare il diritto a rivendicare diritti (viene in mente proprio il titolo del recente saggio di Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti). Blake, uomo semplice ma tenace, non si dà per vinto, però non capisce come si usa il mouse di un computer. Per il sistema, per l’ingranaggio senza senso e autoreferenziale, un aspetto gravissimo: Loach punta il suo dito accusatorio anche contro questo.
Si tratta del paradosso kafkiano di cui si parlava in apertura: Loach effettua la radiografia di una sorta di culto dell’efficienza quasi poliziesco che rende totalmente inefficiente lo stato sociale inteso come sostegno dello stato al cittadino. Ma tutto si aggroviglia per Blake, tra telefonate che non arrivano, ricorsi che non ricevono risposta e incontri che si avvitano, s’impallano come i computer. Un cerchio che pare impossibile da spezzare. Eppure Blake continua a insistere: “Perché non ho altre entrate, non ho pensione e pago ancora la Bedroom tax”, come dice dopo l’ennesima telefonata surreale.
E i personaggi del film, come succede nella vita reale, sono soli ad affrontare tutto questo. Anche se cercano continuamente compagnia, solidarietà. Così Blake lega con Katie, una giovane vicina di casa madre single di due bambini. Il regista, a ottanta anni, dimostra grande precisione insieme a freschezza e agilità nel descrivere i comportamenti ossessivi di uno dei figli di Katie o l’affezionato giovane vicino nero che non crede più alle istituzioni sociali e si arrangia con il contrabbando di scarpe sportive cinesi, figlie di uno sfruttamento ancora più selvaggio.
O ancora il personaggio dell’impiegata pubblica che cerca malamente di aiutare Blake e sul cui volto si legge un vero travaglio interiore. Tutti personaggi degni che si confrontano con l’alienazione. Katie cercherà di fare l’impossibile – fino al punto di colpire la propria dignità – per riuscire a trovare lavoro e quindi a provvedere in qualche modo ai suoi figli. Anche il suo si rivela un problema di burocrazia. Io, Daniel Blake parte da una rappresentazione intima del sociale per arrivare ad accusare due facce della stessa medaglia: la tecnocrazia inumana di Bruxelles e il neoliberismo dei trattati internazionali. Ieri quelli di Bill Clinton, oggi quelli di Barack Obama come il Ttip, sul quale il presidente uscente degli Stati Uniti non pare arrendersi. Tutti questi elementi, perfettamente calibrati all’interno del film, ci ricordano che le decisioni politiche del macro(mondo) incidono sulle nostre vite.
Potrebbe essere una vita quieta in un quartiere popolare tutto sommato dignitoso, dai numerosi scorci graziosi. O sarebbe potuta essere? Lasciamo al lettore l’interrogativo in sospeso. Fin dall’inizio, Ken Loach delinea efficacemente in pochi tratti, o meglio in brevi sequenze, il carattere del protagonista, i suoi vicini, il suo ambiente.
Daniel Blake è un onesto falegname di 59 anni che deve andare per forza in pensione per un problema al cuore che gli impedisce lavori usuranti. Ma subito si scontra con un Moloch: la burocrazia britannica, ormai kafkiana stando alla rappresentazione offerta dal regista. L’atto d’accusa, esplicito, è contro le riforme sanzionatorie in ambito sociale dei tory (nel film è chiaramente citato e accusato Iain Duncan Smith, ministro del lavoro con David Cameron, quest’anno dimissionario, insieme alla Bedroom tax). Il parere del suo medico non vale. Vale invece quello di un’ignota “professionista” che nega a Blake il sussidio di disoccupazione obbligandolo a cercare lavoro, a scrivere un curriculum, a frequentare un workshop intimidatorio e ricattatorio su come si scrivono i curriculum.
Blake è frastornato, oppresso, avvilito, da telefonate, conversazioni, situate sempre sul confine labile tra consiglio e intimidazione. Intimidazione per farlo desistere dal rivendicare il diritto a rivendicare diritti (viene in mente proprio il titolo del recente saggio di Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti). Blake, uomo semplice ma tenace, non si dà per vinto, però non capisce come si usa il mouse di un computer. Per il sistema, per l’ingranaggio senza senso e autoreferenziale, un aspetto gravissimo: Loach punta il suo dito accusatorio anche contro questo.
Si tratta del paradosso kafkiano di cui si parlava in apertura: Loach effettua la radiografia di una sorta di culto dell’efficienza quasi poliziesco che rende totalmente inefficiente lo stato sociale inteso come sostegno dello stato al cittadino. Ma tutto si aggroviglia per Blake, tra telefonate che non arrivano, ricorsi che non ricevono risposta e incontri che si avvitano, s’impallano come i computer. Un cerchio che pare impossibile da spezzare. Eppure Blake continua a insistere: “Perché non ho altre entrate, non ho pensione e pago ancora la Bedroom tax”, come dice dopo l’ennesima telefonata surreale.
E i personaggi del film, come succede nella vita reale, sono soli ad affrontare tutto questo. Anche se cercano continuamente compagnia, solidarietà. Così Blake lega con Katie, una giovane vicina di casa madre single di due bambini. Il regista, a ottanta anni, dimostra grande precisione insieme a freschezza e agilità nel descrivere i comportamenti ossessivi di uno dei figli di Katie o l’affezionato giovane vicino nero che non crede più alle istituzioni sociali e si arrangia con il contrabbando di scarpe sportive cinesi, figlie di uno sfruttamento ancora più selvaggio.
O ancora il personaggio dell’impiegata pubblica che cerca malamente di aiutare Blake e sul cui volto si legge un vero travaglio interiore. Tutti personaggi degni che si confrontano con l’alienazione. Katie cercherà di fare l’impossibile – fino al punto di colpire la propria dignità – per riuscire a trovare lavoro e quindi a provvedere in qualche modo ai suoi figli. Anche il suo si rivela un problema di burocrazia. Io, Daniel Blake parte da una rappresentazione intima del sociale per arrivare ad accusare due facce della stessa medaglia: la tecnocrazia inumana di Bruxelles e il neoliberismo dei trattati internazionali. Ieri quelli di Bill Clinton, oggi quelli di Barack Obama come il Ttip, sul quale il presidente uscente degli Stati Uniti non pare arrendersi. Tutti questi elementi, perfettamente calibrati all’interno del film, ci ricordano che le decisioni politiche del macro(mondo) incidono sulle nostre vite.