Alphonse02
Utente di lunga data
La Coda alla Vaccinara
Premessa storica.
La coda alla vaccinara è un noto e delizioso piatto della cucina romana, fin qui tutti d’accordo, tranne quelli schizzinosi che inorridiscono al pensiero di mangiarsi la coda dell’animale e manco l’assaggiano. Come per la trippa, la pajata, le frattaglie e il cervelletto. Peggio per loro, non sanno che prelibatezze si perdono.
Detto questo, la pietanza nasce come piatto povero, anzi poverissimo, visto le parti di animali che erano scarti venivano dati come una integrazione del misero salario degli operai che lavoravano nel mattatoio, a ridosso del mercato cittadino.
Nasce come pietanza della più povera cucina romana, elaborata nelle misere case degli operai addetti al macello delle bestie (detti nell’antico dialetto “scortichini”, nome che era tutto un programma), in tanti modi elaborati ed inventati dalle donne di casa che, usando ingredienti, spezie ed attrezzi disponibili, per rendere tenera e gustosa quella carne, piena di muscoli e poca polpa attorno alle vertebre caudali dell’animale (la coda ha una funzione che prevede continuo movimento), servivano a sfamare i componenti della famiglia. La coda faceva parte del c.d. quinto quarto (o quarto quarto nascosto) che faceva parte degli “scarti” del mattatoio che non erano vendibili sui mercati della città ma che ancora potevano avere valore nutritivo per quelle classi sociali che non potevano permettersi di consumare la carne più pregiata.
E’ quindi un’inesattezza (per non dire falsità) storica quella che quasi tutti gli autori di manuali di cucina diffondono, cioè che si sia trattato di una pietanza che avrebbe avuto origine nelle osterie dell’antico quartiere Regola (nella zona di Via Arenula) in epoca papale o del quartiere di Testaccio, dove venne trasferito alla fine del XIX secolo e rimase attivo fino al 1975.
L’impiego culinario degli scarti delle bestie macellate affonda nella storia antica. Da ancor prima che si organizzassero i mattatoi e si impostasse una minima politica di igiene pubblica. Nella realtà storica di Roma, il mattatoio si è sempre localizzato, per ragioni organizzative e logistiche (utilizzazione dell’acqua e smaltimento degli scarti) nelle aree periferiche della città (come era nel tempo) ed in prossimità del fiume Tevere. A mano a mano che la città di Roma si espandeva si spostava anche il Mattatoio.
Probabilmente, all’epoca di Cesare (I sec. A.C.) nella Roma repubblicana anche il mattatoio si trovava, insieme ai magazzini delle merci sul versante del colle Celio (compreso nel rione Monti), alle spalle della zona periferica cittadina all’epoca, dall’odierna Basilica (maggiore) di S. Giovanni verso la valle che si trova tra l’Esquilino ed il Celio, per intenderci verso la Basilica (minore) di S. Clemente) dove poi, in epoca imperiale, sarebbe stato costruito il complesso delle caserme dei gladiatori ed i recinti degli animali sul versante collinare sovrastante l’Anfiteatro Flavio (meglio conosciuto come il Colosseo).
L’uso della coda di toro (anche di bue e persino di cavallo) per l’alimentazione è comune in parecchi paesi, europei e non. In Spagna è famosa la ricetta del Rabo de Toro, tipica dell’Andalusia, che sembrerebbe risalire addirittura all’epoca romana. Tenuto conto che dal 98 al 138 d.C. regnarono a Roma consecutivamente due importantissimi imperatori di origini spagnole (Traiano ed Adriano), niente più facile che con i legionari iberici si sia verificata la commistione anche di tipo alimentare di tradizioni culinarie in relazione allo stufato di quelle carni povere.
Si dice che sia nato come piatto povero e sia finito con il diventare un piatto ricco (specialmente per turisti). Corrisponde al vero che la pietanza nacque nelle case dei poveri, con gli ingredienti disponibili, ed una predilezione per i sapori forti e semplici (spezie e grassi animali), mentre quando nel corso dei secoli viene recepita dalle osterie più umili e poi via via da quelle più sofisticate (ad uso anche dei viandanti e commercianti) viene arricchita per soddisfare il palato di fasce di popolazione sempre più abbienti, ad es. con il pomodoro (introdotto in Europa alla fine del XVI sec. ma solo successivamente la sua coltivazione lo rese poco costoso), con le spezie, con il vino al posto dell’aceto, l’impiego dell’olio di oliva in luogo del solo lardo, e le aggiunte (a fine cottura) dell’uvetta, dei pinoli, del cacao, ecc. per renderla più delicata.
Questo spiega una notevole varietà di ricette della stessa pietanza che vengono tramandate, a seconda della provenienza, da quella più remota (meno sofisticata) fino a quelle più elaborate (dal Rinascimento in poi).
Le ricette della coda alla vaccinara
Ad esempio, sul sito Le due ricette della coda alla vaccinara (esquire.com) si parla di due ricette, appunto una più semplice (anche per numero di ingredienti, in cui c’è tanto sedano, come ricorda @ologramma) ed una più ricca con lo spruzzo di cacao (come indica @oriente70) probabilmente preceduta dall’impiego anche dell’uvetta sultanina e dei pinoli.
Vi segnalo la ricetta (tra quelle più ricche) della coda alla vaccinara che si trova sul sito di Giallo Zafferano al link https://ricette.giallozafferano.it/Coda-alla-vaccinara.html mentre quella che vi propongo è una via di mezzo, anche ammodernata sulla base delle diverse usanze dietetiche del post-modernismo culinario e di una concezione di impiego ragionato degli ingredienti in una visione di eliminazione, per quanto possibile, degli sprechi alimentari.
Diciamo che la mia ricetta è una rielaborazione di una ricetta appresa da famiglie di tradizione romana, dove gli ingredienti possono essere aggiunti, a seconda della disponibilità degli stessi, innestandoli su una base tradizionale.
Un’aggiunta finale: la preparazione della coda alla vaccinara conduce alla produzione di un primo piatto (pasta ma anche bruschettine) mediante utilizzazione del sugo come condimento e di un secondo piatto (la carne della coda) insaporito dall’uso di verdure.
Nella mia versione (che chiamo della Sora Menica), c’è un’ulteriore produzione di una terza pietanza, un ricco brodo vegetale-animale, così denso che lo attenuo ed allungo con il liquido di cottura di altri vegetali (con predilezione per i broccoletti o cime di rapa). Il brodo così risultante si impiega per minestre (cappelletti, tortellini o anche pastina) ma anche per la cottura di risotti (ai funghi, allo zafferano, all’ortica, al curry, ecc.). e si può congelare anche in cubetti per impiego in cucina per insaporire (senza ricorrere a prodotti pieni di sostanze chimiche).
Prologo: la CARNE da acquistare
Non sempre si trova facilmente e, spesso, va ordinata la coda dal macellaio. Per orientarvi, pure se sembra sciocco, è la parte dall’attaccatura dell’osso sacro in poi del bovino. E’ ricercata da quelli che ne sono affezionati consumatori. Va detto, ci sono i macellai che non la trattano e, quando sono richiesti di fornirla, semplicemente improvvisano. Per cucinarla, vi dovrà essere consegnata priva della pelle e della pelliccia, solo carne ed osso (avvertenza per quelli che risiedono in lande dove non viene consumata; in Svizzera, quando l’ho chiesta, me l’hanno consegnata intera, come era stata tagliata).
La coda alla vaccinara si prepara con coda di bue ma in alternativa si può utilizzare anche la coda di vitello, la cui carne resta più tenera e richiede una cottura meno lunga. In prima approssimazione, si afferma che la coda in pezzi viene fatta stufare per lungo tempo, a fuoco basso e coperta, preceduta da un soffritto realizzato con un trito di verdure (aglio, cipolla, carote, sedano) e pomodori pelati. La lunga cottura (complessivamente anche 5 ore) permette al sugo (vegetale) di insaporirsi molto bene ed è usanza condire con esso i classici rigatoni, così da avere con una preparazione un primo ed un secondo piatto e, come ho accennato, persino un ricco brodo da impiegare per risotti o minestre.
(segue la ricetta della Sora Menica nel post successivo)