O
Old chensamurai
Guest
Seduto, nervosamente, sulla sua sedia, con lo sguardo supplice del cacciatore di frodo al cospetto del padrone del cervo, il Samurai osservava. Osservava quella ragazza, seduta di fronte a lui. La siderea bellezza femminina, incatenata, forzata nelle carni, immeritata, amalgamata al naufragio dell’intelligenza, nell’oceano del vuoto, nel turbine del nulla. Bellezza e intelligenza. Tanto Dio ha dato a quella, tanto ha tolto a questa. Parole. Rumori. Suoni, forse. Forse. Movimenti. Articolati. Aria. Parlava molto la ragazza. Incomprensibile. Il Samurai, nel frattempo, osservava un imenottero, un’affamata formica laboriosa. Affamata.
“Lo sai che Thoreau ha scritto pagine memorabili sulle formiche?”, chiese il Samurai.
“Thoreau, chi?”, rispose la ragazza.
Il Samurai non si mosse. Non rispose. Rimase fermo, immobile, come un crotalo. Si limitò a far suonare, dolcemente, il suo sonaglio. La ragazza ordinò un’acqua tonica. Con ghiaccio. E limone. Rimasero in silenzio per molti minuti. Il tempo scorreva, come le pagine di un libro, nelle mani di un avido lettore. Uno dietro l’altro cadevano i granelli di sabbia. Inesorabili come la fame. La Fame. La ragazza. La ragazza e la sua fame. La sua bocca e la sua fame. Fame del Samurai. Il tempo s’insinuava nel silenzio sempiterno del pensiero. Tra gli interstizi e le fenditure del nulla relazionale. Frustrazione. Mortificazione. Avvilimento. Il Samurai lottava con una feroce e sgretolante abiezione. Un corpo a corpo brutale. Spossante. Improvvisamente, il guerriero giapponese guardò verso ovest, al sole che tramontava, e pronunciò la seguente, criptica ed ermetica, frase: “I cattivi a volte si riposano, gli imbecilli mai”. La fanciulla lo guardò inebetita e rispose: “Imbecilli cosa?”…
“Imbecilli dove, come e quando, l’essenza e l’esistenza”, rispose il Samurai.
Parole zen. Oscure. Ambigue. Forse un Koan. La formica laboriosa, indifferente al resto dell’universo, era alle prese con una briciola di pane, enorme, plumbea. Quando le cose sembravano già fatte, la formica si capovolse sul tavolo, perdendo il suo prezioso carico, e lì rimase, frustrata, delusa, inappagata. Fu a quel punto che il Samurai venne sfiorato da un pensiero infernale, malvagio e perverso. Gotico. A sesto acuto. Il pensiero della vendetta. Vendicarsi del capriccio degli dei, che avevano voluto avvolgere il nulla della stupidità, con quel corpo perfetto di donna. Vendetta. Vendetta. Vendetta. Farsi Gigante, figlio di Gea e Urano, e sfidare l’Olimpo. Questa volta, uscirne invitto. Nemmeno Eracle, risorgendo dalle ceneri, avrebbe potuto salvare la giovane fanciulla.
“Dèi del cielo, sarò la vostra Nemesi, la vostra figlia della notte”, pensò il Samurai.
I pianeti si fermarono sulle loro orbite. Immobili. Ad osservare.
“A casa tua o a casa mia?”, chiese il Guerriero.
“A casa tua”, rispose la giovane fanciulla.
Giunsero alla dimora del Samurai, percorsero la lunga scalinata che portava ai piani alti della casa e, senza tanti preamboli, caddero in un letto. Cinti. Baci, baci e ancora baci. Mani, mani e ancora mani. Mani che si toccano, mani che accarezzano. Mani. Occhi, occhi e ancora occhi. Occhi che scrutano. Occhi che cercano. Avidi. Via i vestiti. Via tutto. Nudi. La carne rosea, tremula, fremente. E ancora mani, occhi, lingue e desiderio. Succo e desiderio. Desiderio, desiderio e ancora desiderio. L’infiggente scala dell’amplesso. Improvvisamente, poco prima del compimento di quel atto che unisce gli amanti in un divino abbraccio, il Samurai si alzò in piedi e pronunciò le seguenti parole: “Cèterum cènseo Carthàginem èsse delèndam”. Subito dopo, cominciò a rivestirsi. La ragazza lo guardò attonita, disorientata, sbigottita, ancora invasa d’umido desiderio. Muta. Tacita.
“Ora, masturbati!”, disse il Samurai.
“Ora, fanciulla, avviluppati in te stessa. Implodi. Risali, a ritroso, la strada che porta agli dèi e dì loro, che il matrimonio tra la bellezza e la stupidità è l’ignominia più grande che un dio possa celebrare. La bellezza è verità. La verità è sapienza”. Finito di pronunciare queste parole, il Samurai uscì dalla porta della camera, lasciando la giovane donna piangente, umiliata, irrisa, oltraggiata.
La vendetta era compiuta. Tutto era stato adempiuto.
I pianeti ripresero il loro moto di rivoluzione attorno al sole, sulle loro orbite, secondo le leggi divine e quelle di Keplero.
L’umano senso del sublime può strangolare una bestemmia divina.
“Lo sai che Thoreau ha scritto pagine memorabili sulle formiche?”, chiese il Samurai.
“Thoreau, chi?”, rispose la ragazza.
Il Samurai non si mosse. Non rispose. Rimase fermo, immobile, come un crotalo. Si limitò a far suonare, dolcemente, il suo sonaglio. La ragazza ordinò un’acqua tonica. Con ghiaccio. E limone. Rimasero in silenzio per molti minuti. Il tempo scorreva, come le pagine di un libro, nelle mani di un avido lettore. Uno dietro l’altro cadevano i granelli di sabbia. Inesorabili come la fame. La Fame. La ragazza. La ragazza e la sua fame. La sua bocca e la sua fame. Fame del Samurai. Il tempo s’insinuava nel silenzio sempiterno del pensiero. Tra gli interstizi e le fenditure del nulla relazionale. Frustrazione. Mortificazione. Avvilimento. Il Samurai lottava con una feroce e sgretolante abiezione. Un corpo a corpo brutale. Spossante. Improvvisamente, il guerriero giapponese guardò verso ovest, al sole che tramontava, e pronunciò la seguente, criptica ed ermetica, frase: “I cattivi a volte si riposano, gli imbecilli mai”. La fanciulla lo guardò inebetita e rispose: “Imbecilli cosa?”…
“Imbecilli dove, come e quando, l’essenza e l’esistenza”, rispose il Samurai.
Parole zen. Oscure. Ambigue. Forse un Koan. La formica laboriosa, indifferente al resto dell’universo, era alle prese con una briciola di pane, enorme, plumbea. Quando le cose sembravano già fatte, la formica si capovolse sul tavolo, perdendo il suo prezioso carico, e lì rimase, frustrata, delusa, inappagata. Fu a quel punto che il Samurai venne sfiorato da un pensiero infernale, malvagio e perverso. Gotico. A sesto acuto. Il pensiero della vendetta. Vendicarsi del capriccio degli dei, che avevano voluto avvolgere il nulla della stupidità, con quel corpo perfetto di donna. Vendetta. Vendetta. Vendetta. Farsi Gigante, figlio di Gea e Urano, e sfidare l’Olimpo. Questa volta, uscirne invitto. Nemmeno Eracle, risorgendo dalle ceneri, avrebbe potuto salvare la giovane fanciulla.
“Dèi del cielo, sarò la vostra Nemesi, la vostra figlia della notte”, pensò il Samurai.
I pianeti si fermarono sulle loro orbite. Immobili. Ad osservare.
“A casa tua o a casa mia?”, chiese il Guerriero.
“A casa tua”, rispose la giovane fanciulla.
Giunsero alla dimora del Samurai, percorsero la lunga scalinata che portava ai piani alti della casa e, senza tanti preamboli, caddero in un letto. Cinti. Baci, baci e ancora baci. Mani, mani e ancora mani. Mani che si toccano, mani che accarezzano. Mani. Occhi, occhi e ancora occhi. Occhi che scrutano. Occhi che cercano. Avidi. Via i vestiti. Via tutto. Nudi. La carne rosea, tremula, fremente. E ancora mani, occhi, lingue e desiderio. Succo e desiderio. Desiderio, desiderio e ancora desiderio. L’infiggente scala dell’amplesso. Improvvisamente, poco prima del compimento di quel atto che unisce gli amanti in un divino abbraccio, il Samurai si alzò in piedi e pronunciò le seguenti parole: “Cèterum cènseo Carthàginem èsse delèndam”. Subito dopo, cominciò a rivestirsi. La ragazza lo guardò attonita, disorientata, sbigottita, ancora invasa d’umido desiderio. Muta. Tacita.
“Ora, masturbati!”, disse il Samurai.
“Ora, fanciulla, avviluppati in te stessa. Implodi. Risali, a ritroso, la strada che porta agli dèi e dì loro, che il matrimonio tra la bellezza e la stupidità è l’ignominia più grande che un dio possa celebrare. La bellezza è verità. La verità è sapienza”. Finito di pronunciare queste parole, il Samurai uscì dalla porta della camera, lasciando la giovane donna piangente, umiliata, irrisa, oltraggiata.
La vendetta era compiuta. Tutto era stato adempiuto.
I pianeti ripresero il loro moto di rivoluzione attorno al sole, sulle loro orbite, secondo le leggi divine e quelle di Keplero.
L’umano senso del sublime può strangolare una bestemmia divina.