Figurati, se mi sentissi attaccato per i toni, avrei resistito non più di un paio di giorni su questo forum

Però è vero che ti capisco fino a un certo punto.
A volte ho l'impressione che anche tu proietti sugli altri ciò di cui hai bisogno per dialettizzare il tuo edificio discorsivo.
Ad esempio, pensarmi invischiato nella logica della colpa e della pietà, ti serve per sviluppare la tua idea di un aldilà da questo schema.
Per convincersi di essere totalmente immuni da certe categorie, può essere molto utile vedere negli altri una schiavitù totale da queste stesse categorie.
Io non gioco così con l'ordine del discorso, sono consapevole della concretezza dei concetti, del fatto cioè che alcuni di essi, per quanto io possa cercare di criticarli, rimangono invischiati nei miei umori, circolano nel mio sangue.
Certo la pietà, la colpa, per carità, roba bruttissima.
Ma io sono fermamente convinto che nessuno che sia cresciuto nella nostra cultura possa dirsene immunizzato.
Mi risponderai probabilmente che infatti no, ma tu lotti ogni giorno per liberartene mentre io mi ci gongolo beatamente.
Ma no, semplicemente non è vero.
E se vuoi parlare di concretezza, io non ho mai lavorato con i tossici, ma ho avuto qualche dipendenza nella mia vita e mi sono anche sentito spesso vicino alla categoria dei ritardati lievi.
Riguardo alla dipendenze, non capisco in cosa il tuo discorso dovrebbe contraddire il mio: ci sono persone che non se ne liberano e non vanno giudicate moralmente per questo. Mica ho detto che non vanno arginate.
Riguardo ai ritardi, io non ho una soluzione, ma ho messo in risalto una contraddizione tra i danni concreti subiti e la mancanza di riconoscimento dell'handicap. E ho aggiunto che a volte ho avuto il desiderio di essere riconosciuto nella mia disabilità (reale o immaginaria che fosse). Non capisco dove sia la contraddizione.
Sono contenta che mi leggi per il verso che intendo proporre. Grazie
Tutti proiettiamo.
La chiave di volta è riconoscere di volta in volta le proprie proiezioni e usarle per impararsi e non per sollevarsi.
Parto dal fondo, perchè davvero irri, non riesco a leggerlo.
Sentirsi disabile, per un qualsiasi motivo, non è minimamente paragonabile ad essere disabile.
E' la differenza fondamentale fra limiti soggettivi (che possono anche essere spostati) e limiti oggettivi (che con tutto quel che si vuole, quelli sono).
SE ti senti zoppo ti senti zoppo, magari cammini pure zoppo perchè ti sei convinto che sia bene così per te, che per te è vantaggioso.
Se sei zoppo, cammini zoppo perchè semplicemente non non puoi ma non hai idea del fatto che può essere diversamente.
La vedi la differenza?
Uso un altro esempio.
L'imbarazzo, idiota, di chi non dice ai ciechi che sono ciechi.
E a me ogni volta che mi capita il genio mi vien da chiedergli "ma sei scemo???"
Un cieco non sa cosa significhi vedere. Se non tramite i racconti altrui.
Di che cazzo ti imbarazzi? (e non è imbarazzo eh...non è voler essere delicati...è ben altro.)
E' davvero vero che l'imbarazzo deriva dalla comprensione dell'altro?
O non è forse una forma distorta e obliqua di compassione che scarica sul cieco la paura di essere ciechi?
E sto cazzo di cieco, oltre a non vederci un cazzo, si ritrova pure circondato da imbecilli che si cagano sotto di fronte alla cecità e pur di non affrontare quella paura in sè la vomitano addosso ad uno che del sole potrà dire un miliardo di cose, ma non di che colore è.
La diversità, il riconoscimento della diversità, è la ricollocazione della propria percezione del limite. Della propria conoscenza del limite.
Il riconoscimento della diversità è smettere di usare se stessi e la norma come parametro. In una pelosa empatia.
E questo critico chiamandolo pietismo. E buonismo.
Quando mi girano i coglioni, ipocrisia benpensante.
Quindi, quel che sottolinei, ossia il fatto che anche la mancanza di volontà è una malattia deriva da quella famosa linea di demarcazione che a priori definisce ciò che è sano e ciò che è malato (a uso rassicuratorio di chi si colloca fra i sani o i guariti) e che quindi quel limite è indice di malattia.
Invece io sto sostenendo che se sei malato, e non sai/vuoi/puoi curarti. Ok.
Per me non sei semplicemente autonomo. Ti manca proprio una parte fondante il partecipare attivamente ad un sistema sociale dando il tuo personale contributo.
Ergo ti metto in condizione di dare il tuo PERSONALE contributo accettando chi sei, con i tuoi limiti ma non compatendoli e non normalizzandoli.
A bomba.
Sei un depresso e non riesci/vuoi/puoi curarti?
Perfetto.
Non sei però neppure in grado di assumerti la responsabilità di altre vite.
Che è un po' come dire che la ragazza down che potrei essere che non è in grado di accendere i fornelli senza dar fuoco alle tende, magari non le do i fornelli e la metto in condizione di cucinare in altri modi. O di non cucinare proprio.
Se però vuoi essere considerato responsabile e autonomo DEVI, proprio DEVI, essere in grado di assolvere gli stessi compiti di chi lo è.
Quindi se sei malato, ti curi. E ti sbatti a mille per farlo.
A ogni fatto, la sua diretta conseguenza.
Che non è un castigo.
E' prendere la realtà dei fatti, fuori di giudizio per la persona che ha valore e dignità a prescindere dal suo limite, e proprio in considerazione di questo prendere quel limite e non fargli sconto di alcun genere.
Se no, siccome la down è tanto carina e simpatica poveretta, le faccio accendere i fornelli e dar fuoco alla casa.
Poverina, già è down, le tolgo pure i fornelli?
Che in comunità era esemplificato in un piccolissimo intervento:
il tossico di turno voleva schivare giornata (letteralmente) stando a letto dandosi malato.
Perfetto. Sei malato?
Da malati non si fuma, si sta a letto, si riposa e minestrina.
Ti credo. Ti considero e ti accetto in quel che dimostri di te. interamente e senza mediazioni.
Come si fa con chi è autonomo nell'assumersi la responsabilità di sè.
(di solito un buon 80% resuscitava...il restante 20% stava davvero male).
E' semplicissimo dire che corrisponde al fare.
Coerenza interna. Che è qualcosa di ben diverso da quella esterna.
Mi spiego meglio così?
