Sono d'accordo. Se ci sono sensi di colpa bisogna imparare a vivere con quelli ma raccontare no.
QUi c'è tutto...
La figura di Don Giovanni, il Don Juan tramandatoci dalla tradizione da Tirso da Molina, sembra essere il rappresentante per eccellenza dell'assenza di colpa e di vergogna che la storia della letteratura e del teatro musicale ci hanno consegnato, facendone un mito moderno, un mito che non cessa ancora di interrogarci e di stupirci. Ci riferiremo qui unicamente al Don Giovanni di Mozart e soprattutto al libretto di Lorenzo Da Ponte, sebbene la storia della letteratura ci abbia fornito esempi innumerevoli ed anche assai diversi di questo mito.
Don Giovanni colpisce ed inquieta perché svela e dissimula allo stesso tempo ciò che dovrebbe essere nascosto, rivela la verità del desiderio e della libido, mascherando se stesso e sfuggendo alla sua stessa identità. Senza colpa e senza vergogna, vuole conoscere, vuole possedere l'origine del piacere, il corpo materno - in una scontata quanto efficace interpretazione analitica - ostinato, inesausto, ed indifferente alla sorte altrui. Ed anche alla propria, in quanto non cede all'imperativo di pentirsi, non sentendosi colpevole, non provando mai vergogna per i propri misfatti. È del tutto inutile infatti che il suo servo e suo doppio, Leporello, lo rimproveri a più riprese della sua condotta: la risposta è sempre quella di una sorta di impossibilità di sottrarsi all'imperativo del piacere - sempre che si tratti di piacere - a fronte del rispetto delle regole, delle convenzioni e della morale.
La scena finale del "dramma giocoso" mozartiano, prima del suo precipitare negli inferi, ha infatti il suo culmine nel fiero opporsi di Don Giovanni ai tentativi della statua del Commendatore di convincerlo a pentirsi: questo lo rende ammirevole, e un po' folle come solo gli eroi, anche se negativi, possono essere.
Don Giovanni affascina per la sua apparente totale indipendenza dall'altro e dalla legge, dedito unicamente alla ricerca del piacere, un piacere che in realtà non incontra mai, realizzando piuttosto una forma particolare di godimento che lo pone necessariamente a stretto contatto con la morte. Sembra non provare la colpa come trasgressione di una norma, che può condannarlo, né la vergogna come limite al godimento totale, che porta altrimenti, come infatti sarà, alla morte: la vergogna costituisce infatti un argine necessario al piacere che potrebbe portare l'individuo alla sua stessa perdita e dissoluzione.
Don Giovanni fa della propria vita un capolavoro di indifferenza e di assenza: tutto il suo moto incessante, la sua ricerca, la sua vitalità drammatica, la sua ricerca ossessiva del piacere ne fanno anche un impotente o un omosessuale "in pectore", nonostante le millantate seduzioni dettagliatamente enumerate e computate nel famoso catalogo dal servo Leporello. Un eroe che non raggiunge mai la sua realizzazione, e che, proprio per questo, è già segnato sulla scena ancor prima del suo apparire. Un eroe spesso travestito, con una maschera che lo protegge dalla possibile vergogna, e che non vuole, o non può rivelare la propria identità, come nella sua prima comparsa nell'opera mozartiana, quando dice a Donna Anna, che sta cercando di sedurre, "Donna folle! Indarno gridi: chi son io tu non saprai!". È proprio il negativo la cifra della sua narrazione, anzi la sua è la prima apparizione del negativo nella cultura dell'occidente, sostiene Cacciari: "La grandezza di Mozart sta nel mostrare la dialettica di entrambi questi aspetti nella sua impotenza: quella alterità può esprimersi soltanto come nostalgia - il suo isolamento è definitivo, la sua sconfitta scontata fin dalle prime battute (...). Don Giovanni non riesce ad esprimere il negativo che come utopia irrealizzabile". (Cacciari, 1971, p. 411-440).
Se la vergogna ha una relazione con il godimento, ed indica che un godimento è avvenuto, allora potremmo dire che Don Giovanni non conosce la vergogna appunto perchè non conosce il godimento, almeno nella forma e nella misura comuni. E se Don Giovanni non ha vergogna è perché, non conoscendo il godimento, non ha una consapevolezza della morte. Non è allora un paradosso che, più di chiunque altro, è continuamente prossimo alla morte.
Don Giovanni, piuttosto che il seduttore che il catalogo vorrebbe consacrare, non compie nessuna conquista, non seduce nessuna donna nel corso dell'opera. Indossa piuttosto a più riprese le vesti del millantatore, di chi deve cercare sempre di cavarsi dalle situazioni che lui stesso mette in opera, o del gaffeur, di colui che fa e dice cose inopportune, ma non se ne vergogna, né avverte la colpa delle sue azioni. Non ne gode, potremmo dire. Per questo la sua morte, se di morte si tratta, è per lui stesso incomprensibile: quando il Commendatore accetta l'invito a cena di Don Giovanni, che è un appuntamento con la morte, questi commenta stupito, ma per nulla turbato: "Bizzarra è inver la scena, verrà il buon vecchio a cena..."
Viceversa, la consapevolezza, e la colpa conseguente, sono, come aveva riconosciuto Otto Rank, scisse e proiettate nel suo alter ego, Leporello. Potremmo aggiungere che anche la vergogna è scissa e proiettata nelle vittime dei suoi tentativi di seduzione, nelle donne che cerca di sedurre, che sono le vere "svergognate" dell'opera, vittime alle quali forse si identifica nell'atto finale del sacrificio. È vero che Don Giovanni sembra ricercare la punizione per la colpa inconscia del suo trasgredire, e che il castigo che colpisce Don Giovanni sarebbe null'altro, in fondo, che la realizzazione del suo desiderio, quello di tornare al grembo materno dopo aver cercato inutilmente dei sostituti della madre irraggiungibile ed aver, altrettanto inutilmente, combattuto gli uomini come dei rivali paterni da uccidere. Così anche la sua identificazione al padre tiranno, è sempre Rank a supporlo, lo porta alla rovina, incalzato dall'orda avida di vendetta. Eppure, la grandezza della sua figura sta proprio nel suo essere inopportuno, nel mostrare, come fa il gaffeur, le faglie e le increspature della coscienza e del comune sentire.
Se "il gaffeur dice quello che non si deve dire, quando non si deve dirlo, dove non si deve dirlo", come sostiene Jankélévitch, (Jankélévitch, 2000, p. 98), fa un intervento "puro", dice la verità, scompiglia l'accordo fondato sul malinteso su cui si fonda il pensiero comune, rompe le convenzioni. Dice Baudelaire che "il mondo va avanti solo grazie al malinteso. È grazie al malinteso universale che tutti si trovano d'accordo. Se infatti, per disgrazia, ci si comprendesse, non ci si potrebbe più mettere d'accordo" (Baudelaire, 1998, p. LXXVIII). Infatti "il malinteso (...) stabilisce tra gli uomini un certo ordine provvisorio che, pur non rimpiazzando l'intesa trasparente senza secondi fini, vale tuttavia più della discordia aperta" (Jankélévitch, 2000, p. 81).
Solo la morte, sostiene Jankélévitch, può reggere il confronto con il gaffeur o l'enfant terrible, quale Don Giovanni è, "poiché è l'intervento puro, l'intrusione di un evento assolutamente estraneo a tutte le circostanze della vita e senza relazione con esse. Sono quasi sul punto di considerare la morte come la gaffe suprema o iperbolica e il defunto come il gaffeur per eccellenza che demolisce con il suo trapasso tutte le combinazioni, manda a monte tutti patti, liquida tutti i malintesi - non perché li chiarisce ma perché passa oltre...." (id., p. 99).
Come un gaffeur impenitente, Don Giovanni scompagina costantemente l'ordine previsto delle cose, o almeno quello sembra essere il suo compito, il destino che si è assegnato. E la morte è in fondo il compimento supremo dell'azione del gaffeur. Dunque, il finale posticcio del coro dei protagonisti che fanno la morale ("questo è il fin di chi fa mal...") costituisce solo un apparente ritorno all'ordine. Con Don Giovanni scompare la possibilità del travestimento, della maschera e dell'inganno: resta l'illusione dei conti che tornano, e di un mondo che abolisce le sue increspature. Tutta l'opera di Mozart è infatti uno strappo alle convenzioni del linguaggio musicale, un aprire dissonanze e alterità, mostrando così proprio la natura "altra" di Don Giovanni. Potrebbe essere, nella lettura che fa Girard del capro espiatorio, la vittima che la società deve espellere per continuare a sopravvivere (Girard, 1972). Come capro espiatorio, Don Giovanni è il pharmakon, è anch'egli vittima sacrificale e dunque in contatto diretto con la divinità, con il sacro. sere, nella lettura xche fa ZGirardeenuto, allora potremmo dire che Don Giovanni non conosce la vergogna appunto poerchè non q Questo rende forse così inquietante la sua figura, proprio il suo appartenere all'area del sacro.
La conclusione dell'opera mozartiana è infatti certamente più in quell'urlo terribile, quell' "Aaahh...!" disumano finale di Don Giovanni che scompare alla vista, inghiottito dagli inferi, piuttosto che nella conclusione posticcia della prima edizione praghese, giustamente abolita successivamente, in cui Leporello racconta agli altri protagonisti la scomparsa di Don Giovanni: "il dramma culmina con il protagonista che resta inghiottito; il gioco termina - allegramente - con l"antichissima canzon" che gli altri protagonisti dell'opera intonano a ristabilire la morale ed il senso comune" (Curi, 2002, p. 199).
Don Giovanni non ha pudore, non ha vergogna perché non conosce il godimento, ma è in relazione diretta con la morte, e attraverso di essa, con il sacro. Mostra ciò che non deve essere mostrato, il desiderio puro, senza sosta e senza oggetto, che ambisce solo alla morte. Per questo la morte, o la scomparsa di Don Giovanni non è così assurda come alcuni critici hanno sostenuto, alla ricerca di una banale coerenza drammaturgica dell'opera mozartiana.
Il castigo finale del nobiluomo seduttore non appare allora affatto né sproporzionato né incomprensibile: Don Giovanni in un certo senso non muore, perché non sappiamo veramente qual è il suo destino, piuttosto scompare alla vista, risucchiato dagli spiriti in un luogo altro, sacrificato al dio vendicatore perché l'ordine possa continuare a mantenersi. Come Edipo scompare, ma non si acceca come Edipo, che non può sopportare la scoperta dei suoi misfatti, in quanto questi non gli appaiono tali. In un certo senso, Don Giovanni è già morto, è già dentro la morte, sin dal suo primo apparire: non sono forse le note che accompagneranno poi la comparsa della statua del Commentatore - il morto per eccellenza, quello che chiede vendetta, il revenant, il demone che torna ad appropriarsi dei vivi -, quelle che aprono l'opera, come a segnare la presenza della morte sin dall'inizio?
D'altra parte l'opera di Mozart è stata scritta sotto l'influsso di due gravi perdite: proprio quella del padre, che spiegherebbe la centralità della figura del Commendatore e dell'angoscia persecutoria, e quella di un amico a lui assai caro. E tutta l'opera è attraversata da una rottura della linearità, da dissonanze e contrasti tematici che fanno apparire in controluce qualcosa che dovrebbe essere occultato e che invece finisce per mostrarsi. Come il gaffeur mostra qualcosa che dovrebbe restare occultato, così Don Giovanni mostra qualcosa che la decenza vorrebbe nascosta: l'irriducibilità del suo desiderio, che lo mette in relazione diretta con la morte: "in ogni morto c'è infatti un certo qual eccesso che urta il bon ton", dice ancora ironicamente Jankélévitch (Jankélévitch, 2000, p. 103). Qual è allora la pena commisurata a Don Giovanni per i suoi eccessi, per la sua mancanza di riconoscimento dei suoi torti, per la mancanza di colpa e di vergogna? Non è la morte, perché "contro i bestemmiatori che svelano il segreto o fanno scandalo si può, se non proprio comminare le pene che colpivano gli apostati dei culti misterici, almeno lanciare la scomunica. Ma contro un morto? Non si può uccidere un morto" (ibid.). La comparsa della statua del Commendatore, presagio di quello che avverrà di lì a poco, è un evento che non suscita alcuna reazione in Don Giovanni: non ha colpa, non ha vergogna, non ha la consapevolezza di chi sa di fare qualcosa di riprovevole, di colpevole, o di indecente. La sua colpa può essere solo inconscia. Porta solo se stesso là dove non si dovrebbe andare, e non teme la morte perché è già nella morte.