Foglia
utente viva e vegeta
La apro così, questa discussione, perché spesso qui si parla di accoglienza dell'altro. Di saper non condividere le scelte di un amico, però allo stesso tempo di accoglierlo come amico. Non ti condivido in questa scelta, ma ti accolgo. Ecco, questo il concetto. Che presuppone la non discussione dell'amicizia, soprattutto (almeno credo) quando le scelte non condivise non riguardano un comportamento che abbia dei riverberi diretti verso noi. Il primo confine. E in tutto questo presupponiamo il fatto che "noi non scegliamo come amici dei pirla". Al contrario, li sappiamo scegliere bene, gli amici. Casomai, non li condividiamo quando SI COMPORTANO come pirla, ma pirla non sono.
Va bene. E un amico di solito te lo tieni anche se si comporta da pirla.
Ho un amico che recentemente si è separato. E' un amico che "mi tengo" da una dozzina di anni. Non vi sto a raccontare tutta la sua storia, faccio una sintesi della sintesi. Ha mollato la moglie sostanzialmente perché questa, a distanza di anni (prima con i figli piccoli le era pressoché impossibile) ha accolto la richiesta di lui di avere interessi propri. Era una richiesta assai "paracula", e al tempo (parliamo oramai di più di dieci anni fa) al mio amico lo dissi. Era paracula perché lui a casa non c'era mai. E lei era incazzata. E lui per questo le rivolgeva l'invito a crearsi interessi (interessi che fossero pressoché monopolizzanti, come del resto lo erano i suoi). Fino al momento in cui - coi figli più grandicelli e i nonni disponibili (oltremisura, direi) - lei ha colto l'invito. Io ho conosciuto abbastanza bene il loro ménage, anche se ovviamente non l'ho "vissuto". Non giudico certo la fine della loro storia, così come al tempo ho sempre accolto il mio amico, pur non condividendolo e dicendoglielo. Ora però non riesco ad accogliere il suo vittimismo. Non la separazione. Non il tradimento, andato avanti per più di un anno in clandestinità, finché di punto in bianco lui le ha detto che "la lasciava per un'altra". Ma il vittimismo che lui ha assunto a proprio vessillo. Cioè: l'idea di essere all'origine della più completa latitanza non lo sfiora. Lo ammette (lo ammetteva sin dall'inizio) ma non tange la sua idea di essere vittima. E' diventato colui che tornava a casa alle sera, alle dieci "e non trovava nemmeno un piatto di pasta pronto". Non i figli ad accoglierlo. Non la moglie.
Sono caduta pure io nel vittimismo, prima di rendermi conto delle mie precise responsabilità. Lui le sue responsabilità le conosce da anni (in quanto proprio le ha ri-conosciute), ma non solo non le ammette (ma proprio zero), ma in tutto questo l'amore per l'altra ora lo vive come la condanna ad essere un pendolare. Un giorno a casa di questa, un giorno ospitato dai genitori (i quali - lo so proprio direttamente da loro - sono incazzati neri per avergli regalato la casa ora abitata dalla moglie). Guadagna parecchio ma sperpera di più. Lo ha sempre fatto. Solo che ora i genitori si sono stancati di coprire i suoi buchi. Ora è vittima apolide.
Veniamo al dunque.
Per me c'è un confine anche nell'accoglienza dell'altro. Verso questo amico (che tale è, e non certo dall'ultima ora), di cui spesso non ho condiviso scelte e idee, ma amico mi è sempre rimasto, ora sto provando un sentimento un po' brutto. Quello del rifiuto, della non accoglienza. In un momento in cui peraltro ne avrebbe bisogno.
Non riesco ad accoglierlo dicendogli "io non credo che tu sia una vittima". E neppure sono incazzata con lui.
Semplicemente credo che in questo momento io non riesca a volergli bene. So che il voler bene non è mosso da un interruttore, ma è come se per davvero questa volta io abbia premuto una leva verso il basso. E non ho niente da rimproverargli nei miei diretti confronti.
Temo di stare facendo quello che un po' tutti lamentano quando viene fatto nei propri confronti: vale a dire essere lasciati soli nel momento del bisogno. Non ricevere neanche una telefonata in cui semplicemente ti chiedono "come stai". In questo momento però non mi verrebbe spontanea neppure questa telefonata.
Se vi va, parliamone.
Va bene. E un amico di solito te lo tieni anche se si comporta da pirla.
Ho un amico che recentemente si è separato. E' un amico che "mi tengo" da una dozzina di anni. Non vi sto a raccontare tutta la sua storia, faccio una sintesi della sintesi. Ha mollato la moglie sostanzialmente perché questa, a distanza di anni (prima con i figli piccoli le era pressoché impossibile) ha accolto la richiesta di lui di avere interessi propri. Era una richiesta assai "paracula", e al tempo (parliamo oramai di più di dieci anni fa) al mio amico lo dissi. Era paracula perché lui a casa non c'era mai. E lei era incazzata. E lui per questo le rivolgeva l'invito a crearsi interessi (interessi che fossero pressoché monopolizzanti, come del resto lo erano i suoi). Fino al momento in cui - coi figli più grandicelli e i nonni disponibili (oltremisura, direi) - lei ha colto l'invito. Io ho conosciuto abbastanza bene il loro ménage, anche se ovviamente non l'ho "vissuto". Non giudico certo la fine della loro storia, così come al tempo ho sempre accolto il mio amico, pur non condividendolo e dicendoglielo. Ora però non riesco ad accogliere il suo vittimismo. Non la separazione. Non il tradimento, andato avanti per più di un anno in clandestinità, finché di punto in bianco lui le ha detto che "la lasciava per un'altra". Ma il vittimismo che lui ha assunto a proprio vessillo. Cioè: l'idea di essere all'origine della più completa latitanza non lo sfiora. Lo ammette (lo ammetteva sin dall'inizio) ma non tange la sua idea di essere vittima. E' diventato colui che tornava a casa alle sera, alle dieci "e non trovava nemmeno un piatto di pasta pronto". Non i figli ad accoglierlo. Non la moglie.
Sono caduta pure io nel vittimismo, prima di rendermi conto delle mie precise responsabilità. Lui le sue responsabilità le conosce da anni (in quanto proprio le ha ri-conosciute), ma non solo non le ammette (ma proprio zero), ma in tutto questo l'amore per l'altra ora lo vive come la condanna ad essere un pendolare. Un giorno a casa di questa, un giorno ospitato dai genitori (i quali - lo so proprio direttamente da loro - sono incazzati neri per avergli regalato la casa ora abitata dalla moglie). Guadagna parecchio ma sperpera di più. Lo ha sempre fatto. Solo che ora i genitori si sono stancati di coprire i suoi buchi. Ora è vittima apolide.
Veniamo al dunque.
Per me c'è un confine anche nell'accoglienza dell'altro. Verso questo amico (che tale è, e non certo dall'ultima ora), di cui spesso non ho condiviso scelte e idee, ma amico mi è sempre rimasto, ora sto provando un sentimento un po' brutto. Quello del rifiuto, della non accoglienza. In un momento in cui peraltro ne avrebbe bisogno.
Non riesco ad accoglierlo dicendogli "io non credo che tu sia una vittima". E neppure sono incazzata con lui.
Semplicemente credo che in questo momento io non riesca a volergli bene. So che il voler bene non è mosso da un interruttore, ma è come se per davvero questa volta io abbia premuto una leva verso il basso. E non ho niente da rimproverargli nei miei diretti confronti.
Temo di stare facendo quello che un po' tutti lamentano quando viene fatto nei propri confronti: vale a dire essere lasciati soli nel momento del bisogno. Non ricevere neanche una telefonata in cui semplicemente ti chiedono "come stai". In questo momento però non mi verrebbe spontanea neppure questa telefonata.
Se vi va, parliamone.