Brunetta
Utente di lunga data
Si è ucciso ieri mattina in carcere Marco Prato, responsabile con Manuel Foffo dell’omicidio di Luca Varani avvenuto nel marzo del 2016. La vittima aveva ventitré anni, fu attirata nell’appartamento di Foffo, drogata, sessualmente abusata, fisicamente aggredita con martellate, e tagli di coltello. Morì per dissanguamento mentre i responsabili dormivano.
Di Manuel Foffo non ci sono immagini in rete – ma alcune dichiarazioni – che colpiscono per la notevole freddezza. Di Marco Prato invece esiste una vasta disposizione di informazioni: foto che lo ritraggono giovane e bello, foto che lo immortalano in una vita di spasso e di lusso, e anche foto che rinviano a un giocare con l’identità sessuale in modo molto queer, postmoderno: per esempio circola un’immagine di Prato con gli occhiali di Lolita a cuore, e poi certo molte foto di lui sorridente e palestrato. Dunque, un’incarnazione di Caino particolarmente funzionale all’immaginario collettivo: niente a che vedere con il marito che ammazza per gelosia, o con il rapinatore a cui scappa il colpo mortale fuggendo da una banca: Prato è il perfetto cattivo promiscuo e danaroso, e certo anche un ragazzo che dalla modalità stessa del delitto – ferire qualcuno per il gusto di farlo, lasciarlo morire per dissanguamento –, fino al proseguo della vicenda, non dice mai di vedere pensieri, sentimenti, destino morte, della vittima.
Quindi, era davvero qualcuno per cui si fa molta fatica a provare pietà, e che anzi riusciva a far sentire come legittimi sentimenti forcaioli, aggressivi, acrimoniosi, qualche volta solo parzialmente collegati all’atrocità del delitto.
Bisogna dire però che una prospettiva psichiatrica o psicodinamica non poteva non riscontrare in tutti i comportamenti noti di Prato, i segni di una psicopatologia grave e conclamata, anche se da lontano non sarebbe stato lecito formulare diagnosi. Tuttavia la stessa modalità dell’omicidio rinviava a una diagnosi psichiatrica: simili crudeltà non possono essere giustificate con i valori del contesto, e probabilmente neanche l’abuso di sostanze è da considerarsi sufficiente, ma al massimo coadiuvante. Piuttosto veniva da pensare alle caratteristiche tipiche dei disturbi di personalità di spettro antisociale, in cui la capacità di riconoscere gli stati d’animo del prossimo è completamente assente, così come il senso di colpa, e il senso di effrazione di una morale condivisa. In ogni caso, aveva anche tentato già il suicidio il giorno dopo il delitto, e il rischio suicidario per lui, era un rischio permanente, come aveva da tempo denunciato il garante nazionale per le persone in condizioni di reclusione, che lo aveva largamente previsto.
Forse questo, però, per quanto ci imbarazzi, è il punto su cui dovremmo concentrarci. È certo difficile provare pietà per una vicenda così scabrosa, ed è certo difficile anche formulare un pensiero di assistenza medica e psicoterapica per pazienti che compiono atti così respingenti, specie nelle carceri, contesti che siamo abituati a considerare come luoghi della punizione, e che quando ci si abbandona alle emozioni, sono menzionati come il luogo della vendetta dei parenti delle vittime, e di chi ha subito un sopruso che deve essere emendato. Ma nel nostro sistema giuridico il carcere è paradossalmente, un altro diritto del cittadino, non solo di quello che è stato leso e attaccato, ma anche di quello che attacca e colpisce: il diritto della sanzione, ma anche della rieducazione, e dell’itinerario per arrivare a capire dove e perché si è compiuto un atto criminale.
Teoricamente almeno l’acquisizione di questa consapevolezza è l’unica cosa che dovrebbe dimostrare l’utilità dell’istituzione carceraria.
Ma davvero, non solo in questo caso, ma anche in molti altri, non necessariamente così teatralmente malefici, questo tipo di processo di acquisizione, non può essere ottenuto se all’interno dell’istituto non ci sono dispositivi di cura per le psicopatologie.
http://iltirreno.gelocal.it/italia-...tto-cattivo-aveva-bisogno-di-aiuto-1.15516449
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Di Manuel Foffo non ci sono immagini in rete – ma alcune dichiarazioni – che colpiscono per la notevole freddezza. Di Marco Prato invece esiste una vasta disposizione di informazioni: foto che lo ritraggono giovane e bello, foto che lo immortalano in una vita di spasso e di lusso, e anche foto che rinviano a un giocare con l’identità sessuale in modo molto queer, postmoderno: per esempio circola un’immagine di Prato con gli occhiali di Lolita a cuore, e poi certo molte foto di lui sorridente e palestrato. Dunque, un’incarnazione di Caino particolarmente funzionale all’immaginario collettivo: niente a che vedere con il marito che ammazza per gelosia, o con il rapinatore a cui scappa il colpo mortale fuggendo da una banca: Prato è il perfetto cattivo promiscuo e danaroso, e certo anche un ragazzo che dalla modalità stessa del delitto – ferire qualcuno per il gusto di farlo, lasciarlo morire per dissanguamento –, fino al proseguo della vicenda, non dice mai di vedere pensieri, sentimenti, destino morte, della vittima.
Quindi, era davvero qualcuno per cui si fa molta fatica a provare pietà, e che anzi riusciva a far sentire come legittimi sentimenti forcaioli, aggressivi, acrimoniosi, qualche volta solo parzialmente collegati all’atrocità del delitto.
Bisogna dire però che una prospettiva psichiatrica o psicodinamica non poteva non riscontrare in tutti i comportamenti noti di Prato, i segni di una psicopatologia grave e conclamata, anche se da lontano non sarebbe stato lecito formulare diagnosi. Tuttavia la stessa modalità dell’omicidio rinviava a una diagnosi psichiatrica: simili crudeltà non possono essere giustificate con i valori del contesto, e probabilmente neanche l’abuso di sostanze è da considerarsi sufficiente, ma al massimo coadiuvante. Piuttosto veniva da pensare alle caratteristiche tipiche dei disturbi di personalità di spettro antisociale, in cui la capacità di riconoscere gli stati d’animo del prossimo è completamente assente, così come il senso di colpa, e il senso di effrazione di una morale condivisa. In ogni caso, aveva anche tentato già il suicidio il giorno dopo il delitto, e il rischio suicidario per lui, era un rischio permanente, come aveva da tempo denunciato il garante nazionale per le persone in condizioni di reclusione, che lo aveva largamente previsto.
Forse questo, però, per quanto ci imbarazzi, è il punto su cui dovremmo concentrarci. È certo difficile provare pietà per una vicenda così scabrosa, ed è certo difficile anche formulare un pensiero di assistenza medica e psicoterapica per pazienti che compiono atti così respingenti, specie nelle carceri, contesti che siamo abituati a considerare come luoghi della punizione, e che quando ci si abbandona alle emozioni, sono menzionati come il luogo della vendetta dei parenti delle vittime, e di chi ha subito un sopruso che deve essere emendato. Ma nel nostro sistema giuridico il carcere è paradossalmente, un altro diritto del cittadino, non solo di quello che è stato leso e attaccato, ma anche di quello che attacca e colpisce: il diritto della sanzione, ma anche della rieducazione, e dell’itinerario per arrivare a capire dove e perché si è compiuto un atto criminale.
Teoricamente almeno l’acquisizione di questa consapevolezza è l’unica cosa che dovrebbe dimostrare l’utilità dell’istituzione carceraria.
Ma davvero, non solo in questo caso, ma anche in molti altri, non necessariamente così teatralmente malefici, questo tipo di processo di acquisizione, non può essere ottenuto se all’interno dell’istituto non ci sono dispositivi di cura per le psicopatologie.
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