ciao
hai aperto un sacco di porte.
Chissà perchè parlare di Violenza è così difficile.
Quest'estate, estate densa qui, l'ho incontrata un sacco di volte. Fra presente e passato
Come se i muri che io avevo eretto per girarle a largo, e avvicinarmici in teoria solo attraverso la spiegazione razionale e fredda, crollassero in sequenza.
Sono andata a prendere la mia amica una mattina. Era gelida e ghiacciata quando sono arrivata. Me la ricordo benissimo quella sensazione di rigidità quando l'ho abbracciata.
Notte d'inferno per lei. Coltelli e forbici. minacce. Paura. Ricatto. Speranza. Sollievo. Gratitudine al coltello abbassato poi.
Quando sono arrivata da lei, lei non era lì. E' tornata dopo qualche ora. Mentre tornavamo dall'ospedale.
A dire il vero non ero lì neanche io. Che accompagnare lei aveva in un qualche modo significato accompagnare la me che non avevo mai portato.
Ci siamo rese conto che in ospedale ci hanno dato precedenza assoluta.
E ha stupito entrambe la cosa.
Non che non la sapessimo. Due donne e un bambino. Un pronto soccorso. Violenza. Avanti a tutti. Funziona così anche sulle navi che affondano. Prima le donne e i bambini.
Ma ci siamo stupite lo stesso. Bocche tese, trattenute, monosillabi, occhi leggermente sbarrati.
E ci siamo stupite della gentilezza. Dell'accoglienza. Di una qualche forma di vicinanza imbarazzata celata dietro la professionalità.
Ci siamo stupite. Che roba.
Due idiote. Lo sappiamo entrambe che è così che funziona. Entrambe conosciamo benissimo i meccanismi della vergogna. Dello schifo. Dell'imbarazzo. Dello sguardo che vuol essere compassionevole e passa pena, perchè è pena quella che stai provando per te stessa. E la passi negli occhi altrui che tentano imbarazzati di passare vicinanza.
Del tremolio nei muscoli. E delle parole che escono spezzate.
E si tiene la schiena dritta. O almeno ci si prova.
Che non è Violenza, non lei da sola. A far tremare.
Lei aveva bisogno di abbracci. Io avrei avuto bisogno di uccidere qualcuno con le mie mani.
Lei tremava per la paura e il senso di non riconoscimento in quello che stava facendo.
Quel referto che ti porta ad avere il diritto di dire "signori e signore, è proprio vero eh. Ho i segni". Adesso posso denunciare. Consapevolezza che quello è un rito di iniziazione. Che è lì che cominica tutto. Mica è la fine. Quell'ambulatorio. E' un forse inizio. Forse.
Io tremavo di rabbia inespressa. Per lei. Per me. Per quel rito iniziatico che è entrare in pronto soccorso, presentarsi ad uno sportello e dire. E guardare gli occhi che cambiano lo sguardo. E le mani che si muovono più veloci sulla tastiera del pc dell'accettazione. E la mano che si allunga al telefono per segnalare la cosa. E la voce professionale che dice "si accomodi oltre la porta. La chiamiamo subito". E chiamano davvero subito.
Quell'essere chiamate subito. Mi ha sconvolta. Profondamente.
Ancora non riesco a capire se è un gesto di umanità e cura, e sicuramente lo è. E per fortuna c'è. Che anche aspettare...anche solo arrivare a quell'ospedale era sembrata una strada lunghissima.
Ma nella mia distorsione mi è sembrato quasi un tentativo di assoluzione. Una riparazione ad un'aberrazione.
Probabilmente sono distorta io. E sicuramente quella mattina lo ero. Che portare lei, una sorella acquisita in Violenza, ha significato portare quella me che non avevo portato quando avrei dovuto.
La sensazione imperante...sole. Aggrappate. Una all'altra. Che lo sai razionalmente che devi soltanto muovere i passi giusti per attivare la macchina difensiva e pubblica. Sperando che non ci vogliano troppi tentativi per farla partire.
Che ti ripeti che va bene. Che partirà e tutto seguirà il suo corso. Si può respirare adesso? (te lo chiedi eh, quando ti rendi conto che eri in apnea).
E intanto pensi a dove hai lasciato l'altra macchina, quella vera, che ti ha portata lì. E ti chiedi se quel parcheggio andava bene. E ti rispondi che sì, va bene. E' giorno. E si fa l'elenco delle cose in valigia. Le cose fondamentali. Che si spera di non dover star via troppo a lungo. Ma non si sa mai. E si studiano posti sicuri in cui rifugiarsi per pensare. Respirare. Riposare.
Si attiva la rete. E la rete per fortuna risponde.
Pranzo in casa sicura. Nè la mia nè la sua. Che sono conosciute.
La riflessione che ne abbiamo tratto, da quella mattina è che serve un'alleanza per uscire di casa così, ghiacciata. Qualcuno che dopo averti abbracciato ti prenda e ti porti via. Senza concedersi troppi fronzoli. Troppe consolazioni.
La consolazione ha i suoi tempi e i suoi spazi.
Combattere dicevi giorgio. Disabituati. Disabituate. E' vero. E non fa buon gioco quando lo si deve fare. E lo si deve reimparare. Che quella sensazione di sicurezza, una volta squarciato il velo, prende la consistenza che ha. Nulla.
E guardavo quella quasi sorella che cercava di ricomporre la frattura. Spiegare. Comprendere.
Tacevo mentre guidavo. Che lei ne aveva bisogno. E io dovevo tacere.
Che quei suoi tentativi di spiegare e giustificare e normalizzare una cosa straordinaria come un coltello al collo nella banalità di una discussione sfuggita di mano, mi facevano guardare nel mio personale specchio i riflessi di cui hai parlato. Canini scoperti. Di nuovo violenza. La mia. Di reazione.
Nella mia storia lo schifo me lo sono spalmata addosso. E l'ho usato come corazza. Mentre mi vendicavo. E usavo Violenza a mia volta. Provandone anche grande piacere. Per dire con chiarezza.
Che vedere il dolore negli occhi dell'altro mi rinfrancava del mio. E lo volevo vedere salire lentamente. Inaspettato. E non mi bastava neanche un po'. Mi piaceva lasciarlo scemare per riattivarlo. E poi ancora.
Non fisico. Ho sempre pensato che il fisico è il segno. Semplicemente.
Io volevo vedere l'altro. Di dolore. Quello che lascia spaesati. Quando meno te lo aspetti. Quello che disorienta improvviso e imprevisto.
Ho subito violenza e l'ho ricambiata. Giocando al giochetto di vittima carnefice come in un role plaiyng. La rabbia a farla da padrona.
Quei riflessi che non si vogliono vedere. Che li si guarda sottecchi. E hanno anche il loro fascino. E il loro potere.
Prima di prendere possesso di te e annichilirti e annullarti. Dentro a quello specchio. Che è rotto. Ed è facile perdercisi.
Di questa mappa. Nello specchio spezzato non si parla. C'è la mappa. Ma pare nascosta molto bene.
E allora. mentre la cerchi. annulli. Te.
Che annullarsi è annullare il riflesso. Diventa quasi necessario a volte. Salvifico. Aria. Non pura. Ma respirabile almeno. Dentro nella distorsione. E nell'isolamento.
Vergogna. E rabbia.
Io almeno l'ho provata. In segreto. E nel segreto.
E vai a cercar rifugio da quella rabbia annichilente e mortifera nell'annullamento e nello schifo. Proprio nella vergogna.
Che poi...Violenza è sensibilissima. Roba da rimanerci meravigliate.
Si innesta in maniera precissima su una storia di vita. Non inizia nel momento in cui inizia.
Affonda i tentacoli nei vissuti, li avvolge. Li adegua. E ci si adegua. In un gioco di distorsioni infinito. Paradossalmente piacevole.
Passa i veli del tempo. Si innesta con precisione millesimale. Fra passato presente e futuro.
Che provi a spiegartela nel momento in cui vedi l'inizio. Ma non è lì l'inizio.
E non è neanche prima.
E' contemporaneamente ovunque nel tempo.
Pervasione. La parola che meglio descrive a mio parere e nella mia esperienza. Si diffonde ovunque.
Nello spazio e nel tempo.
Talmente bene, da sparire. Normalizzata. Addomesticata. Apparentemente.
Agli occhi di chi la vive. E agli occhi di chi la vede.
Per fortuna esiste il corpo. Con i segni che sa portare. A rendere reale un qualcosa che lo è talmente tanto da sembrare normalità. (per fortuna:unhappy
Parli di comunità trasformate in ghetti.
Io traduco con reti interrotte. Non curate e non cucite.
Lasciate sulla riva a prender sole, acqua e salsedine. Aria e pioggia.
Che sembrano lì. Ma a volte, provare a prenderle in mano, significa sentirle sgretolare fra le dita. E ritrovarsi stupite a guardare quello che si era visto fino a pochi istanti prima. E non c'è. Stralci. Restano a volte. E ci si aggrappa.
Con la mia quasi sorella...abbiamo riflettuto tanto su come se non fossimo state quasi sorelle da quella casa non sarebbe uscita. Ci vuole poco a normalizzare. Hai ragione. Siamo abituati a farlo.
E di fronte ad una male tanto banale come la violenza che arriva da uno sguardo conosciuto, e ogni sguardo umano lo è prima di trasformarsi, è ancora più semplice farlo.
Che è facile trasformare quel momentaneo sconosciuto e straniero, in ciò che si conosce e rassicura.
Si. Rassicura. Forse perchè l'uso del combattere non è più in uso.
Che più spaventoso di subire violenza, è nominarla. Darle il nome. Dirlo ad alta voce. Renderla vera.
Appropriarsene. Nelle sue sfaccettature.
E' un percorso. Nominare. Urlare il proprio schifo. Assumerselo. Renderlo parte di sè da non usare nè come corazza nè come strumento di annichilimento.
Che in effetti non è molto d'uso in questo momento storico essere malati, non prestanti, non forti. Non furbi in particolare.
Che di solito la prima domanda che viene posta è "ma perchè non te ne vai?"
Bella domanda. Simpatica.
Una bella deviazione in effetti.
Che di fronte a violenza, in chi la guarda disgustato, emergono quelle reazioni di sollevamento del labbro...desiderio di azzannare. Provocare dolore. Come minimo tanto quanto. Ancora violenza. Riflessi.
(e l'abbraccio consolatorio...dio che male che fa, è l'esorcismo di quella violenza evocata da violenza).
E guardare quel riflesso di me, mi da il segno di come violenza permei il mio essere. Nonostante io l'abbia subita. Ancora il riflesso dei canini brilla nello specchio quando la incontro. Anche se non mi riguarda direttamente.
E mi rendo conto che sono anche io un riflesso. Violenza l'ho subita. E violenza è in me. Mi fa ribollire il sangue.
Istintivamente.
Non sono capace di rifugiarmi nella consolazione. Per mia struttura ed esperienza. Mi piacerebbe saperlo fare, a dire il vero. Forse la consolazione diventa una specie di uscita di sicurezza da quei canini che sbrilluccicano nello specchio.
Ma io non sono capace. Desidero katane. Ben affilate. E devo mettere all'opera l'osservazione di me e del circolo attivato per reinfoderare la lama. operazione razionale comunque. Che non sono pratica dell'altra via. Di ricomposizione.
Poi entra al lavoro la razionalità e il pensiero. E lo schifo che ho provato per me, si riversa sull'altro.
Quasi liberatorio. Non sentirlo addosso a me, anche se è stato per anni una piacevole corazza, quello schifo.
Ma vedo il circolo vizioso. Di violenza che nutre violenza.
E oltre che vederlo lo sento.
E penso a come si può. Ricucire la rete. Il parlare apertamente dei riflessi. Rendendoli amici. In condivisione. E non solo fantasmi da esorcizzare.
Non vergogna. In chi subisce, in chi agisce, in chi vorrebe vendicare e consolare.
E penso a come si potrebbe costruire una mappa dentro agli specchi di quei riflessi. Che lo specchio io l'ho visto negli occhi di chi vuole bene a me quando si è piegato come avessi tirato un diretto in pancia.
(la mia reazione ovviamente è stata consolare.)
E chi mi circonda adesso, chi è nella rete, li scopre i canini. E si specchia nei canini scoperti dell'altro. E ci si spaventa a vicenda. Che Violenza è anche lì. E noi siamo convenuti al suo tavolo.
Ma forse lì è la dalla parte giusta. (?)
Io non so.
Sono sempre più convinta che spiare quei riflessi, non può che generare violenza e violenza e violenza.
Guardarli, dargli un volto più umano...forse...
Sono sempre più convinta che i demoni debbano essere amici. E non debbano essere eliminati con un colpo in testa ma resi alleati. Che eliminarli è eliminare una parte di noi. Mentendo. Io penso. Che non ci si può eliminare se non annullandosi. E se non ci si annulla, i demoni riemergono. E riemergono, a volte, anche dall'annullamento.
Non sempre razionalità li sa gestire.
Ho fatto un gran minestrone...spero che qualcosa si capisca.