Credo anch'io che per un insegnante sia più semplice rapportarsi ai giovani adulti che agli adolescenti.
Intendevo dire che nel caso specifico dell'asimmetria relazionale, con i giovani adulti sia più difficile da gestire perché si gioca su un piano meno evidente - meno evidente a me e a loro.
Il discorso sulla formazione, davanti a una platea di ventenni, è più delicato.
Ho sempre trovato ridicola l'attenzione data alla "formazione degli insegnanti".
Io ho avuto ottimi e pessimi docenti, dalle elementari all'università, e la differenza qualitativa tra i migliori e i peggiori non passava certo per il numero di crediti di formazione in didattica.
Essere capaci di insegnare è qualcosa che si costruisce a partire da una certa indole innata, sulla quale poi si innesta la volontà, lo studio, la passione, l'evoluzione, ecc.
Ma di sicuro dipende solo in minima parte dall'aver ricevuto degli insegnamenti su come insegnare.
Chi ha bisogno di studiare didattica, ha già un problema.
E aggiungo: anche chi sente bisogno di studiare un metodo.
Nessuno a me ha ma insegnato metodologia della ricerca, che oggi va molto di moda.
E nessuno dei miei insegnanti, che sono ottimi ricercatori, aveva mai avuto bisogno di studiare metolodogia.
Il metodo è contenuto nella disciplina stessa, te ne appropri studiando i testi stessi, non gli schemi metodologici tratti da quei testi.
E lo stesso vale per l'insegnamento: meno didattica, più esperienza.
Sai che non sono d'accordo?
Se l'asimmetria relazionale, che è data dal ruolo - o meglio, dalla consapevolezza dell'individuo che indossa quel ruolo - e dalle funzioni di ruolo, diventa meno evidente a chi ne è portatore è il portatore di quel ruolo che ha da lavorare - su se stesso - per delinearla.
Uno dei (tanti) motivi della difficoltà della demarcazione dell'asimmetria con gli adolescenti è che stanno attraversando fasi evolutive in cui stanno mettendo in discussione autorevolezza e autorità e ruoli precostituiti, oltre che la figura adulta in sè.
E con loro la costruzione del ruolo, della prossemica relazionale è particolarmente complessa anche per questioni di comunicazione e linguaggio (uno degli aspetti splendidi dell'adolescenza - e portatrice di dolore per l'adolescente spesso - è proprio la rifondazione di una comunicazione e di un linguaggio in cui l'individuo sempre più si distacca dal modello familiare per fondarne uno personale).
Quindi, per far sintesi, se è un adolescente in salute, è proprio l'asimmetria che sta discutendo e combattendo.
Un po' come le bestie giovani che tentano la scalata sociale.
Con i giovani adulti è semplice questa gestione perchè, se stanno bene emotivamente, dovrebbero aver già attraversato quel passaggio evolutivo.
Ed in ogni caso, chi non l'ha attraversato non rappresenta la maggioranza della composizione dei gruppi di quell'età.
E la gestione richiesta riguarda più l'asse della comunicazione e della consapevolezza di sè.
Ovviamente, se non sai un cazzo di psicologia dell'età evolutiva per dire, e men che meno di didattica, queste cose non le sai e allora vengon difficili cose che sono l'abc dell'insegnamento.
Altro discorso è la difficoltà dell'insegnante a costituire in sè innanzitutto quella linea.
E questo aspetto riguarda la formazione dell'individuo e le sue competenze di collocazione in rapporto al sociale.
E mi lego alla seconda parte del tuo post che non mi trova minimamente d'accordo.
Che fra l'altro rimanda all'insegnamento come vocazione.
Emerita cazzata per tutta una serie di questioni, in particolare la vocazione femminile. E tenendo conto che il corpo docente, in particole nei gradi primari e secondari, è per la maggioranza composto da donne non è una questione di poco per le implicazioni che ha anche riguardo la relazione con le famiglie (che credono che la maestra- la professoressa sia una sorta di mamma aggiunta a cui delegare compiti che riguardano la famiglia e non la scuola e confondendo i piani).
Sorvolando però sulla questione della vocazione, l'insegnamento è principalmente una questione di metodo.
In particolare se lo si vuol fare con cognizione di causa e non semplicemente intendendolo come una celebrazione delle proprie competenze che si riversano nell'altro.
E' evidenza scientifica che esistono diversi stili di apprendimento - sorvolo sui dsa e sui vari bes che sennò diventa veramente troppo lunga e tecnica - non saper tradurre la didattica nei diversi stili non creare ambienti di apprendimento moderni è incompetenza (io licenzierei chi non è in grado di farlo sapendo giustificare scientificamente cosa fa e come lo fa).
Certo, se non si sa un cazzo di stili di apprendimento, strategie didattiche che permettono di utilizzarle nell'insegnamento, strumenti è un discorso che non sta in piedi.
Se poi il riferimento è la scuola di 60 anni fa quando l'insegnante entrava in classe, la classe si alzava in piedi e poi si sedeva lasciandosi riversare dentro il sapere - come se il sapere si potesse passare per infusione, ed in effetti allora era giustificato visto che le menti dei bambini erano considerate anfore da riempire - diventa molto ovvio che un professore non riesca a reggere il carico pedagogico.
Fra l'altro la didattica da sola non è neppure sufficiente, proprio per le cose che hai scritto tu. ( se pure manca

)
Che ritieni difficile per esempio gestire l'asimmetria relazionale e la distanza prossemica.
non saper gestire semplicemente questi aspetti è la base e non è una cosa che si impara con la volontà.
E' un percorso intenzionale di formazione.
La descrizione di scuola che porti non forma individui.
E futuri cittadini.
Forma gente che è legata a quel contenuto specifico.
Che se gli vien bene è bravo ed è bravo il prof se non gli vien bene è poverino (che gli si chiede troppo)/cattivo e il prof poverino/cattivo.
Come dicevo, questo è specchio della tua visione del rapporto fra individuo e società.
Ma non è sicuramente fra i compiti che ha la scuola.
E' una tua visione personale.
Il compito primario di una scuola è agevolare la crescita di cittadini e individui consapevoli.
Fra l'altro, tenendo conto del fatto che le conoscenze ad oggi sono vecchie già nel momento in cui vengono esplicitate, a maggior ragione un docente che si limita ai contenuti e non ai metodi, alle tecniche di apprendimento e a come individuarle e guidarci dentro gli studenti è un insegnante vecchio e che non è al passo con un mondo in cui tutto va molto, molto più veloce di quanto si riesca a seguire.
E che è ben più complesso della specificità di un contenuto.
Lo slogan più esperienza e meno didattica mi fa venire in mente i geni delle ultime riforme. E personalmente mi fa venire l'orticaria.
Va bene per chi si limita a leggere i libri. E a raccontarli.
Camacho, di cui chiacchieravo con
@abebe, per lo meno sapeva di dover trovare qualcuno di intelligente per risolvere problemi di cui sapeva di non capire la portata.
Se da qui rientriamo nel discorso diversità...è ancora più allucinante quello che si scrivi.
Lavorare e predisporre un lavoro per un dislessico, per un disgrafico o per un discalculico, farlo seriamente intendo a partire dalla conoscenza di un funzionamento e non di una malattia se non lo studi non lo inventi. E manco sai immaginarti cosa vede un dislessico su un foglio o perchè serve una certa dimensione e una certa luce e una certa posizione nello spazio.
Questo per rimanere nei facili.
Poi potremmo passare alle disabilità lievi.
E a quelle gravi.
Per forza che poi finisci a celebrare la sfiga di questi poveretti a cui poveretti vien chiesto più di quello che possono!!
Studiare un metodo, e questo è un altro aspetto che deriva dalla tua visione della società e del rapporto con l'individuo, non significa aderire al metodo in maniera dogmatica. Studiare I METODI significa saperli usare a seconda delle necessità che vengono rilevate di volta in volta ed in ricerca azione, valutando seriamente e rigorosamente gli step di percorso e muovendosi in modo euristico all'interno del percorso. E facendo valutazione in modo rigoroso e sostenuto da evidenze e non approssimativo. (si può, eh)
Un insegnante competente è un insegnante che sa cosa fare, come farlo e perchè.
A livello educativo. A livello formativo. A livello didattico. A livello sociologico e antropologico.
E che sa declinare a seconda di chi si trova di fronte, del setting, del contesto,dei bisogni rilevati (anche questi in modo rigoroso e non approsimativo) le sue competenze.
Però, il tuo discorso regge bene in ambito universitario.
Se non ti capita qualche asperger per dire.
E io mi auguro che asperger, autistici ad alto funzionamento, disabili lievi, iperattivi arrivino sempre più spesso alle università.
Perchè finalmente anche nelle università ci sarebbe la spinta a innovare e a svecchiare.
Un insegnante che non sa essere presenza significativa, non è un insegnante.
E' un operaio. Della fabbrica della conferma dei saperi dati.
Da qui al formare menti critiche - e questo sarebbe il compito delle università ormai decaduto da decenni - ce ne passa.
Essere bravi insegnanti non significa per niente esser bravi espositori.
Semmai fai il conferenziere. O l'accademico. O il ricercatore.
Esser un bravo insegnante, ossia compartecipare alla formazione di individui consapevoli e critici, non è roba per tutti. Lo ribadisco.
E finalmente la cosa comincia ad essere evidente.
Quel che scrivi a me fa venir in mente questa roba qui. Allo specchio. Coperta di pietismo e bontà pelosa, tesoro mio e povero cucciolo. Ma la meccanica è esattamente la stessa. Solo mattoncini nel muro di qualcun altro.
E si vede.