Tebe
Egocentrica non in incognito
Milano, venerdì mattina
Guardo il giorno sorgere, filtrato grossolanamente dalle tende a lista in bambù nero che cadono rigide sul pavimento in tek lucido per tutta la lunghezza della parete vetrata.
Braccia incrociate dietro la testa, in fissa sulle lame di luce via via più splendenti, che sembrano tagliare l’aria immobile del loft.
Rumore di traffico e risvegli. Rumore da clima fine settimana.
Il click della segreteria ieri sera e ancora la voce di Sofia “ Matteo, ti chiedo solo dieci minuti...” Un brivido di fastidio al ricordo della voce incisa.
Mi alzo completamente nudo. Spalanco l'enorme porta finestra scorrevole, alla ricerca d’ aria.
Grigio e freddo.
Niente sole.
Niente verde.
Solo i tetti di corso Buenos Aires.
Mi passo una mano tra i capelli. Doccia. Caffé. CNN. Sigaretta. Lavoro.
E…
E?
E forse lei.
Gaia.
Butto giù caffé ascoltando di guerre, crolli di borse e similari come buongiorno, la prima sigaretta fumata distrattamente e in testa sempre e solo lei. Aspiro e penso. Penso che nessuna di loro è mai stata qui oltre lo stretto necessario e non sempre comprensivo di doppia scopata.
Penso che sia davvero strano che invece lei, in qualche modo, sia riuscita a farmi dire Vieni qui.
Penso che, per quanto assurdo, Gaia abbia trovato una traccia e, consapevole o meno, l’abbia seguita.
Trovandomi.
Abbasso lo sguardo e incontro quello del mio cazzo.
Scoppio a ridere mentre schiaccio la sigaretta in un portacenere di ardesia lucida verde.
Non ha seguito una traccia, solo chiare indicazioni.
Quelle del mio cazzo duro.
Ospedale
«Dottor Edore, una comunicazione interna.»
Ho appena asportato un utero, quando l’idiota dice proprio…“Dottor Edore, una comunicazione interna”.
«Non voglio essere disturbato quando opero.»
«E’ il dottor Canfora. Dice che importante.» insiste l’infermiere.
Il mio atteggiamento cambia «Lo passi in viva voce.»
Sguardi sfuggenti tra l’ equipe.
«Fai presto, sto operando.» dico piatto senza staccare gli occhi da quello che sto facendo.
«Appena finisci devi volare ai piani alti. Le Cariatidi ti stanno aspettando.» la voce di Francesco è ovunque nella sala operatoria.
Fermo la mano «Perché?»
«Non lo so, forse l’ennesimo gruppo anti abortista che hai traumatizzato ti ha denunciato, oppure sempre i tuoi amici di Voce Cattolica. Oppure qualche parlamentare. La lista delle tue cazzate è lunghissima...»
«O magari qualcuno ha avuto il coraggio di denunciarti per maltrattamenti emotivi.» una frase sussurrata nell’aria, tra bip e ronzii delle macchine, che non capisco da chi provenga visto che, due delle tre donne dell’equipe, me le sono scopato e il resto di loro mi vede solo come uno stronzo egocentrico.
Passo oltre «Esattamente…» continuo mentre scruto il malloppo di carne e sangue «chi ti ha detto di avvertirmi?»
Una pausa, poi «Tuo padre.»
Mi volto di scatto verso l'interfono, aspettando di vedere il vecchio apparirmi «Mio padre?»
«Direttamente da Kigali.»
Torno con l’attenzione sul tavolo operatorio «Aspiratore.» sbuffo sotto la mascherina «D’accordo, comunica pure alle Cariatidi che andrò fra un paio d’ore.»
Risata di Francesco «L’ intervento che stai facendo finirà molto prima.»
«Lo so, ma ho una sfida a Tekken con il dottor Riposi di ortopedia e non posso proprio mancarla. Se mi ritiro me la da persa. E non perdo mai a Tekken.»
«Purtroppo non perdi mai a niente.» Un altra voce anonima dalla mia equipe.
Sorrido.
Tre ore dopo
Fisso la punta della sigaretta chiedendomi se non sia il caso di far interdire il vecchio.
Non riesco ancora a crederci. No. Proprio no .
Prendo il telefono e faccio il numero del reparto di Francesco «Edore...Canfora.»
«Certo dottore, un attimo solo.»
Una manciata di secondi e la voce di Francesco «Dove sei?»
«Appena entrato nel mio studio.»
«Cosa è successo?»
«Il vecchio vuole che vada a Kigali per istruire alcuni ginecologi sulle tecniche più nuove di chirurgia mini invasiva e già che sono li anche un po' di day surgery. Credi sia demenza senile? Sta storia del suo volontariato con Medici senza Frontiere comincia ad essere ridicola.»
«E' sempre stato uno di loro ed ora che tutte le sue cliniche sono in mani sicure, fa esattamente quello che avrebbe voluto fare da almeno vent'anni. Il Medico senza frontiere a tempo pieno.»
Aspiro. Butto la cenere. Scuoto la testa «Non metto in discussione la sua scelta, metto in discussione il fatto che voglia tirarmi dentro. Sono finiti da secoli i tempi in cui poteva esercitare un certo tipo di autorità su di me.»
«Quando avresti dovuto andare?»
«Secondo lui, oggi.»
«Beh, non è da tutti avere come figlio l’enfant prodige della figa e tutto ciò che ci gira intorno.» Scoppia a ridere poi si riprende «Ma naturalmente avrai risposto di no.»
«Infatti. In Ruanda e similari non ci torno nemmeno morto.»
«Mai dire mai nella vita e...»
Lo interrompo «Niente mi porterà mai più in una zona di guerra qualsiasi. Niente. Sei tu quello che ci va io mi occupo di disastri e calamità. Il vecchio troverà qualcun altro. Non sono certo l’unico al mondo ad usare da Dio entrambe le tecniche.» Faccio una pausa «Ho chiesto a Gaia di venire a stare da me finché non parte.»
Un silenzio dall’altra parte.
«E quando va via?»
«Lunedì sera.»
Uno schiocco di labbra, seguite da una specie di grugnito «O Gesù.»
«Lascia stare il mitomane. E' solo sesso. Giorni interi di scopate.»
«C'è qualcosa che non mi torna. Scopate o no, non c'è stata mai nessuna donna che si è installata per più di sei ore a casa tua. Nemmeno Sofia, nemmeno quella che viene a farti le pulizie.»
«Non rompe il cazzo e ha qualcosa di disarmante, ma non credo che disarmante sia l'aggettivo giusto.»
«Posso dirti cosa penso?»
«Lo fai comunque.»
«Te l’ ho già detto. Arrenditi, non puoi fare altro. E’ il fulmine divino.»
Mi tocco i coglioni. Lui continua «Ci vediamo dopo da Christian per una birra?»
Stringo le mascelle.
Posso scegliere.
Posso ancora scegliere.
Uscita con Francesco. Non lei.
Casa. Lei.
«No, un’altra sera.»
Lo sento ridere mentre chiude. Click.
In testa She wants it di Timberlake feat 50 cent.
Sera, loft
Una strada.
Buia.
L’ululato di qualcosa.
Lupi, forse.
Io che mi muovo come Matrix, occhialini neri compresi, silenzioso e letale.
Una figura in sottofondo.
Francesco.
Non mi ha visto.
Ma io si.
Mi nascondo dietro un albero. Grosso e contorto. Aspettando che passi, per poi saltargli addosso e renderlo una poltiglia di carne e sangue. Dargli fuoco. E mettere il filmato su You tube.
Così.
Per divertimento.
Figlio di puttana.
Lo osservo cattivo mentre, appoggiato ad un pilastro in ferro aperto del loft fa il cretino con una starletta nazionale, sembrando etero.
Lo farò presente ad Alessandro. Quando lo conoscerò. Se lo conoscerò.
Do l’ennesima golata di whisky. Stringo le labbra. Più di trenta persone in casa. In casa mia. Stasera. Proprio stasera. Francesco ha tirato su gente come se fosse il figlio segreto di Lele Mora ai bei tempi.
«Ciao, sono di Schok! Me le concedi due chiacchiere informali?»
Altra golata. Dov' è Gaia? Muovo gli occhi, cercando di trovarla nel casino. Dio Cristo. Eccola.
Digrigno i denti, involontariamente, mentre tiro giù altro whisky.
«Scusami, non mi sono nemmeno presentata.» pausa pirotecnica «Chiara Redaelli. Giornalista di rosa.»
Appoggio la bottiglia sul tavolino basso di fianco al divano e mi accendo una sigaretta, incastrandola tra le dita. Altro sorso. Non riesco a staccare gli occhi da Gaia. E dai quattro che la circondano, completamente avvolti da lei. Rapiti.
Fumo.
«Prometto che non pubblicherò niente se prima non mi dai l’autorizzazione.»
Se la stanno mangiando con gli occhi. Il solito calore a testa e cazzo, ma non mi muovo. Rimango li. A bere. Fumare. Guardare.
«Mi stai ascoltando almeno?»
Vedo Gaia due ore fa che entra in casa, sorridendo, tirandosi dietro un piccolo trolley rosa e un computer super rinforzato visto solo ai Marine nella guerra del golfo tranne, presumo, per il piccolo mouse ottico a forma di acquario gay. Con tanto d'acqua dentro.
Vedo Gaia che si infila una tuta grigio perla e sparge piccole tracce di se per tutta casa.
Una pila di dvd di fantascienza. Un barattolo gigante di gelato alla nocciola. Bacchette cinesi per i capelli. Fanta in frigo. Un asciugamano rosa. Mi sono immaginato un sacco di cose due ore fa, tranne questo casino.
«Sei la persona più maleducata che abbia mai conosciuto…»
Mi volto verso la voce. Bel viso. Poche tette. Belle labbra.«Chiudi la bocca o usala per qualcosa di utile.» mi tocco il cazzo, casomai non avesse capito.
«Vaffanculo!» Sempre, sempre lo stesso copione.
Torno a guardare Gaia, un copione a quanto pare invece, ancora tutto da leggere. Bevo di nuovo.
«Sembri uno dell’anonima alcolisti che ha appena fallito i dodici passi.» Francesco.
«Sono le undici e mezza. A mezzanotte vi voglio fuori dai coglioni.» sibilo, continuando a bere .
«D’accordo. Mi sono divertito abbastanza.» sorride da presa per il culo, abbassato alla mia altezza.
Stacco lo sguardo da Gaia e lo sposto su di lui «Divertito?»
Annuisce «Sono anni che cerco il modo di fartela pagare per tutte le volte che hai fatto lo stronzo con i miei fidanzati. Poterti rovinare una serata che aspettavi era un occasione perfetta. Altro momento Master card.»
Sono dentro lo spot e la voce fuori campo dice “Ci sono cose che non hanno prezzo“
«Vaffanculo Francesco.» Tono cambiato. E’ diventato scherzoso. I momenti Master card sono sacri.
Si gira, torna a guardarmi «La signora D’Este non ti ha considerato tutta la sera.» Socchiude gli occhi e mi scruta come se dovesse mettermi un filler antirughe «Forse il luccichio che vediamo intorno a lei non è polvere di fata ma il riflesso dell'acciaio.» Lo allontano. Mi gira la testa «E tu sei geloso…» sentenzia.
«Portami in bagno e sbattimi sotto la doccia. Poi fuori dalle palle. Tutti. Tranne Gaia.»
Milano, sabato mattina
Rumore di dita che battono veloci su una tastiera
Odore di pane al burro, vaniglia e limone.
Odore da casa alla Mulino bianco.
Dio Cristo.
Sete.
Apro gli occhi.
Li richiudo.
Rotolo su un fianco e la testa ha un rimbombo.
Dolore.
Gola di carta vetrata.
Sete.
Caldo.
Che il Mulino bianco stia andando a fuoco? Sorrido appena, poi lentamente riapro le palpebre. Un miraggio. A fatica, allungo una mano e prendo la bottiglia d’acqua che spunta da un cestello da champagne pieno di ghiaccio. Senza la forza di mettermi seduto bevo, come se fossi in mezzo al deserto tra dune roventi e non avvolto dalle mie lenzuola di seta blu cobalto.
Devo alzarmi.
Butto giù le gambe dal letto prendendo un lungo respiro e mi infilo in bagno.
Mi appoggio al bordo del lavandino in pietra, lungo due metri. Alzo la testa verso l' intera parete a specchio.
Cazzo, chi è quello li?
Dieci minuti dopo, bagnato e con in bocca ancora il sapore del dentifricio, oltrepasso la zona salotto illuminata solo da luce naturale che filtra attraverso le pareti panoramiche a vetri, lungo quasi tutto il perimetro del loft. Sembra di essere sospesi dentro un gigantesco acquario ed è esattamente così che lo volevo. Una tana senza pareti e cazzate inutili. Una tana dove poter prendere lunghi respiri.
«Come stai?» mi chiede Gaia gentile, a bassa voce. E’ seduta sul divano, con il Marine pc appoggiato su un cuscino che si è messa davanti e in bocca una biro per traverso. Come un pugnale.
«C’è odore di pane al burro in questa casa. E di limone.» la testa mi scoppia «Che ore sono?»
«Le tre del pomeriggio…» Si alza, sparisce quasi dietro l'isola in marmo «Ti preparo una colazione da dopo sbornia. Le colazioni e i dolci sono l'unica cosa che so fare a fortune alterne. In cucina credo di essere la negazione fatta a persona.»
Chiudo e apro gli occhi sentendo la testa rimbombare leggermente.«Cosa è successo ieri sera?» non riesco a smettere di fissarla.
Indossa una tuta aderente verde militare, di quelle con cappuccio, con la zip aperta davanti e alza le spalle «Hai semplicemente bevuto troppo e con Francesco ti abbiamo messo a letto. Davvero molto simpatico il tuo amico.»
Mi siedo all'isola prendendomi la testa fra le mani. Dio Cristo, quanto ho bevuto? Mi sembra anche di sentire Britney Spears cantare. Non posso essere ancora ubriaco.«Britney Spears?» chiedo sentendo un bolo di vomito salirmi dalla gola.
Ride, mentre mi porge un caffé doppio nero «Adoro Britney e Ooh ooh baby mi mette di buon umore.» Ancheggia, dondolando un po’ la testa, seguendo la musica.
Mi stropiccio la fronte portando alle labbra il caffé «Magari mi farai ascoltare anche tutto il meglio di Rhianna e che so, i Backstreet Boys. Che mi dici delle Pussycat Dolls?»
Si siede davanti e aspiro una eco lontana che sa di erba appena tagliata.
«Li adoro tutti!» scherza spalancando gli occhi «Ma ti informo che non scenderò a compromessi con Britney, Mika e…Ti farò avere una lista.» sorride mentre reclina la testa, cantando il ritornello.
«Gusti musicali di una dodicenne. Hai le foto dei Tokio Hotel nel portafoglio?» tento di fare il serio ma è davvero dura perché scoppia a ridere, ed è una risata leggera che penetra pelle e carne, diretta fin nello stomaco.
Britney, intanto, ha lasciato il posto proprio alle Pussycat Dolls, almeno credo siano loro. Cazzo di male in peggio. Cosa verranno dopo? I Sunrise Avenue?
Un bip, poi un altro bip.
Si alza, va al suo computer, le osservo il fondo schiena, batte qualche tasto, poi torna «Scusa, ho approfittato della tua rete wireless.» Si guarda intorno « Non ho mai visto una casa più domotica di questa.»
«Non sono un patito della tecnologia, ma tutto ciò che semplifica la vita è qui dentro. Cosa vuoi fare stasera?» chiedo piatto mentre finalmente sento il caffè caldo scendermi in gola.
Alza gli occhi, sporge in fuori un po’ le labbra, poi si tira indietro i capelli.
Mi costringo a rimanere seduto, anche se ho voglia di alzarmi e schiacciarla contro il frigo nero e lucido, vedere la superficie diventare opaca e umida del suo sudore, ho voglia di prenderla in piedi e baciare la sua pelle fino a scavarla.
«Che ne dici di una cena fuori? Magari come marito e moglie...» si alza, e una manciata di istanti dopo è di nuovo seduta con davanti una tazza da latte e cioccolato.
Contraggo la fronte. Marito e moglie? Osservo un istante il frigo «Cosa?» le tempie tornano a rimbombare.
Butta indietro la testa scoppiando a ridere «Era una battuta!» Beve un sorso di latte. I suoi occhi nei miei. Britney di nuovo. Gimme more.
Mi accendo una sigaretta cominciando a far girare l’accendino fra le dita poi sposto la tazza di fianco e mi sporgo sul tavolo «C’è un letto di là.»
Si morde un labbro mentre sposta anche lei la tazza «E’ davvero così urgente che noi facciamo sesso adesso?» un sussurro. Che sa di arresa o vittoria.
E davvero così urgente, ora e subito? «Sei qui per questo.» rispondo senza staccarle gli occhi dal viso.
Continua a guardarmi, tranquilla, mentre schiude le labbra in un altro sorriso.
Allungo una mano, le sfioro la tuta, infilo un dito sotto la zip aperta e faccio scivolare via la stoffa dalla sua pelle. Pelle chiara. Liscia. Spalle rotonde, ma non esili. Seni pieni e alti, che premono contro una specie di canotta a costine bianca. Scommetto che ha capezzoli rosa e piccoli che si tendono appena vengono sfiorati.
Non si muove. Ha solo socchiuso gli occhi.
Stacco il dito, mi allontano e alzo. Il suo polso imprigionato in una mano e la tiro via dalla sedia.
Basta giocare.
Il cellulare squilla. Quello del lavoro. Quello a cui non puoi non rispondere.
Gaia inarca un sopracciglio cercando di individuare il suono.
La libero, apro il forno a microonde, prendo il cellulare. E’ la clinica.
Ovviamente.
Rimango in ascolto qualche istante facendo vagare lo sguardo oltre i vetri, poi annuisco «D’accordo. Mi vesto e arrivo.»
Lancio il cellulare sul grande divano in pelle verde scuro e cuscini rossi poi mi volto, guardandola «Devo andare in clinica. C’è la solita ispezione nel reparto Hospice.»
«Succede spesso?» si tira su la manica e riprende in mano la tazza.
Ha il respiro leggermente affannoso, il colorito un po’ più rosa.
«Si, succede spesso. Usiamo marijuana per alcuni pazienti terminali e i carabinieri vengono a controllare che non facciamo spaccio.» sorrido quasi. «In effetti la do anche a qualsiasi paziente non terminale che me la chiede, ma non sono ancora riusciti a provarlo.» riprendo la tazza finendo di bere il caffè «Due mesi fa Schok! Mi ha soprannominato dottor Escobar. Quel settimanale mi da delle grandi soddisfazioni. Forse avrei dovuto farla l'intervista ieri sera.»
«E’ come se tu ostentassi il dono della laicità medica allo stato puro, senza fobie e retorica...» comincia tirando i piedi sulla sedia, appoggiando il mento sulle ginocchia «e in questo paese, sembra essere un grosso problema. Siete fobici su un sacco di cose e tu sei estremo.»
«Fino a ieri fa non sapevi nemmeno chi fossi.»
Alza le spalle «Ho fatto qualche ricerca e non è stato difficile. Hai anche dei fans club.» mi fissa rilassata.
Ho il cuore in gola e non so perché «Devo andare, tu fa cosa vuoi. Nella ciotola egiziana, sotto i preservativi, ci sono le chiavi di casa, mentre nella cinese quelle della Toyota. Se preferisci c'è anche un Mercedes.»
Scoppia a ridere «La carta di credito, invece?»
Faccio per parlare, ma non riesco.
Penso solo.
Tu.
Sei.
Mia.
Sera
Torno a casa che sono le otto passate. Mi danno il benvenuto penombra e silenzio.
Tolgo il cappotto, accendo le luci, globi di chiarore nascosti agli angoli del muro bianco ghiaccio a sinistra mentre altre invece, sono incassate nel pavimento in tek scuro.
Oltrepasso il loft ed in fondo, la mia camera.
Dorme.
Nel mio letto.
Mi tolgo la camicia, mentre non smetto di fissarla, allargando le narici per assaporare il suo profumo sempre meno estraneo. E’ su un fianco con il cuscino perpendicolare, un ginocchio piegato e le labbra chiuse.
Tolgo le scarpe.
Lei continua a respirare lenta.
Mi avvicino. E scruto ogni centimetro di quel corpo. Un corpo che sembra avere invaso ogni mia fottutissima cellula. Perchè è come giocare a mosca cieca in territorio sconosciuto, dove nemmeno i suoni e gli odori hanno sfumature già sentite.
Mi siedo sul letto.
Questa donna è un viaggio, fatto di regole infrante e continui cambi di percorso.
Mi viene da sorridere.
Una cosa nuova.
Mi stendo al suo fianco, puntandomi con il gomito.
La sfioro.
Si muove.
La sfioro ancora.
Gira leggermente la testa «Meno male. Non ti hanno arrestato…» un sussurro assonnato, pigro «mi vedevo già ad organizzare un sit in pacifico di protesta.»
«L’avresti fatto?»
Non ci pensa nemmeno «Certo…» si rannicchia un po’ su stessa «Perché, tu no per me?»
Ci rifletto un istante «No, io no.»
Prende un respiro profondo. Si stropiccia il naso, poi si mette seduta, ancora con una certa lentezza . Le fisso schiena e capelli.
Si volta a tre quarti «Non ci credo. E non riuscirai a convincermi del contrario.» sorride.
Appoggio la schiena sulla testiera in pelle nera e sento lo stomaco aggrovigliarsi «Combatto solo le mie battaglie, non ho mai posseduto un mantello azzurro e non sono allergico alla Kriptonite.»
«Lo so, oggi ti ho lavato il mantello nero e la fodera viola della bara.» si morde un labbro per trattenere un sorriso.
Scoppio a ridere mentre la vedo scendere dal letto e indicarmi con un dito di girarmi a pancia in giù.
Eseguo, mentre ancora rido, ma smetto subito perché lei…«Che cosa stai facendo?» mi punto sui gomiti, mentre siede ancora più saldamente sui glutei e avvicina la bocca alle mie orecchie
«Solo dirti delle cose. Rimettiti giù...Per favore.» Chiudo gli occhi. La sento muoversi e aderire. «Sono alta uno e settantadue e peso cinquantadue chili…» il suo volto nell’incavo del mio collo «tu invece?»
Giro la testa, senza aprire gli occhi «Uno e novanta, per quasi ottanta chili.» non riesco a capire dove voglia arrivare.
Scivola di lato, infilandosi sotto di me. Le faccio spazio, sfiorandola appena. Viso contro viso. Occhi contro occhi.
«Niente conflitti Matteo. Soprattutto a letto.» si concede un sorriso «A differenza tua non ho il fisico e…» smette di sorridere «vorrei che questa sera e la prossima non si trasformino in un ring.»
Le prendo un polso e poi l’altro sollevandoli sopra la testa.
Non oppone nessuna resistenza.
E continua a parlami «Vorrei che fosse diverso…»
Appoggio le labbra sulla sua gola, mordicchio piano, graffiandola intenzionalmente con la barba di due giorni. Si flette, mentre scendo e ho lo stomaco di lava.
Pelle alta, brividi, freddo. Mi fermo, perché la ragione ha massacrato l’istinto e le sue parole mi entrano in testa. Vorrei che fosse diverso. Diverso da cosa? Pensieri che arrancano, il cazzo pulsa, i suoi capezzoli duri sotto la maglietta contro la mia. La libero e mi alzo.
Ho voglia di arrotolare un dito tra i suoi capelli.
Ho voglia di tornare da lei e disegnarle addosso strade di saliva.
Allargo le dita, come per sgranchirle, mi chino. E’ ancora stesa «Diverso da me o diverso da te?» chiedo.
Mi studia, con occhi grandi e languidi e penso che solo uno come Neruda possa descrivere tanta bellezza.
«Non ha importanza. Solo diverso.»
Notte
Si volta.
Si rannicchia.
Si avvolge dentro il mio corpo, aderendo alla pelle come se ci fosse sempre stata.
La circondo stringendola, cercando di non svegliarla.
Affondo il naso nei suoi capelli e respiro.
Chiudo gli occhi. Tento di riaddormentarmi.
Non l’ ho nemmeno scopata.
Milano, domenica quattro del mattino
Sono seduto immobile al centro della palestra. Esattamente nel rettangolo di luce che filtra dalla grande finestra. Ad osservare la notte. E la luna. E i lampioni. E la pioggia mischiata a neve.
Male ovunque da tanto mi sono allenato.
Non ce l’ ho fatta a rimanere, ad ascoltare il suo respiro regolare, ad essere custode del suo sonno, a non tirarle via quella cazzo di maglietta e scoparla.
Afferro l’asciugamano e asciugo sudore.
Me ne sono andato. E sono venuto qui, in palestra, a massacrare sacchi e carne, finché ho avuto forza.
Scappi?
Ancora fermo a fissare luna e notte. E nevischio.
Quante paranoie. Domani sera se ne va, cosa ti importa…
Niente.
Un bussare leggero, ma deciso. Mi volto verso la porta, guardando subito l’orologio a parete. Le quattro. Di notte. Apro, sperando non sia qualcuna di loro. Me le sono ritrovate in posti impensabili, compreso la piramide di Cheope e il Darling a Praga.
Apro.
Francesco «Allora la cosa è grave.»
«Che cazzo ci fai in giro alle quattro del mattino?»
«Forse è più strano che tu sia in palestra.» passa oltre, entrando «Sono andato a fare la mia quota di ore al Consultorio e, tornando a casa, ho visto il Mercedes sotto.» si guarda intorno «E Gaia dov'è?» tono da presa per il culo «Non è venuta a vedere Van Damme in bello che si allena?»
Lo sorpasso, raccogliendo il borsone e infilandoci dentro l’asciugamano .
Lui continua «Allora dottore…le ultime notizie davano la signorina D’Este a casa tua fino a lunedì, ma tu sei qui e non là a scopartela» alza un po’ il mento e sogghigna «Avevo ragione. E’ davvero grave. Qui non è più il fulmine divino, è il big bang divino.» avvicina la faccia alla mia e continua a sogghignare.
Lo guardo come se fosse un povero idiota, poi vado verso le docce. Un passo. Due. Tre. Mi fermo e mi giro. Dalla posizione in cui sono, Francesco è solo un ombra stagliata alla luce pallida dei lampioni. Mi gratto la fronte e sorrido muto «Soffrivo d'insonnia. Non sono abituato ad avere donne nel letto. A dormire.»
«Cazzate…»
Scuoto la testa «Time out Francesco. Riprendiamo questa conversazione martedì sera da Christian. Ora mi doccio e torno a casa. A scoparmela…»
Allarga le braccia, che sono ombre nere «Ok. A lunedì allora. Notte Van. A proposito...E' passata Sofia stasera al consultorio.»
Mi blocco, fissando il corridoio deserto delle docce.
Nessun rumore.
Solo quello del mio cuore che sembra rimbombare per la gigantesca palestra.
«Mi ha detto di salutarti.»
«Niente altro?»
«Riparte domani per un progetto con una clinica a Boston e starà via parecchio. Ti scriverà una mail.»
Prendo un respiro «Bene. Buonanotte Francesco.»
Rientro un ora dopo e trovo Gaia seduta sul divano, a mangiare gelato alla nocciola e scrivere sul Marine pc, con tutto il migliore repertorio dei Backstreet boys.
Odore di brioche calde e marmellata di arance. Chissà, magari esce Nonna Papera dalla cucina adesso…
Alza il viso «Se mi addormento tra le braccia di qualcuno, vorrei risvegliarmici.Anche se è una scopata.» nessuna accusa nel tono che mi raggiunge nella penombra. Nessun lamento o recriminazione nascosta. Solo una richiesta.
Appoggio sul pavimento il borsone e mi siedo al suo fianco. «Cosa ci fai al pc alle cinque del mattino?»
Si volta appena. Appoggia il barattolo di gelato sulla tastiera «Aspettavo che tornassi.»
I miei occhi si allargano nella semioscurità cercando di catturare i suoi, illuminati dal monitor.
Stomaco stretto.
Tutto è diventato immobile.
L’aria. L' ossigeno. La notte. Milano.
Ma non lei, e prima che possa farlo io e già seduta sopra di me, con le mani appoggiate sulle spalle.
Faccia contro faccia, le sue labbra vicinissime. Il suo respiro. Il cuore che posso sentire.
Infilo un mano sotto la sua tuta, mentre con l’altra slaccio il sottile cordino. Scendo, lentamente, perché non voglio essere invadente, perché forse è questo che lei vuole, la diversità che cerca.
Gesti dolci e romanticismo, anche se il mio cazzo la pensa in tutt’altro modo.
Ma ancora una volta stravolge ogni dogma.
Si avvicina.
Le sue labbra. Un tocco che è un assaggio. La sua lingua che si insinua ed è chiaro chi conduce.
E’ lei che ha in mano la situazione, e non ha nemmeno avuto bisogno di spargere sangue per ottenere il privilegio.
Non so come mi spinge ad accettare, a rilassarmi sullo schienale del divano e lasciarmi controllare dalla sua bocca, che non è aggressiva e nemmeno smielatamene dolce, è solo.
Si allontana «Dove sei…» mi chiede.
Non apro nemmeno gli occhi «Dentro la tua bocca.»
Ride, al di la delle mie palpebre chiuse «Romanticamente carnale…» mi sussurra sulle labbra, e preme sul mio inguine.
Le mani scattano sulla sua vita, stringendola. La sollevo appena. Sorrido io «Se vuoi che davvero sia diverso…smettila…»
Trattiene il respiro mentre la sposto e la sdraio sul divano. Di nuovo sopra. Come ieri, quando mappava a voce i nostri corpi. Sempre ritorni con lei, ore spezzate che si riconnettono a piacimento, fregandosene delle regole. Ma stamattina è diverso.
Un tuono.
Acqua.
Buio.
Nessuna voglia di scoparla con leggerezza, solo lenti percorsi.
Le sue mani scivolano sotto la mia maglietta, la sollevano.
E tolgono.
La sua fa la stessa fine.
Nessuna fretta.
Tempo fermo.
Lei che si libera dai pantaloni della tuta senza smettere di fissarmi, io che scopro che tutto diventa niente a parte la donna che sto gustando e toccando, in maniera non convenzionale, almeno non per me.
La bacio. La ascolto con la pelle, mentre si tende ad arco,la sento aderire con i suoi capezzoli duri, la sento mordicchiarmi la giugulare.
Voglia che tracima dalle cellule, e non da scopata cattiva, ma da gustare lentamente.
Infilo un ginocchio tra le sue cosce, le allargo, mentre scendo sulla gola, un seno, l’ ombelico.
Ha peluria bionda e morbida, un rettangolino quasi invisibile sulla pelle chiara.
Affondo il viso tra le sue cosce e l’assaggio.
Le stringo i fianchi, mentre la penetro con la lingua e comincio a giocare con il suo clitoride.
Ha un sapore delizioso.
Scivola più sotto, alzandomi la testa.
La osservo, ancora in penombra, mentre stringe gli occhi a fessura e mi invita a fare altro.
Una piccola fata del cazzo malefica e bellissima, e fuori il temporale che sta svanendo .
Accompagna la risalita verso di lei, incrociando le mani dietro la mia nuca.
La bacio. Le faccio assaggiare il suo sapore, invadendole la bocca , non lasciandole scelta e si comporta come se non la volesse, una scelta.
Preme sulla mia testa, per affondare di più nel bacio, mentre infilo una mano di nuovo fra le sue gambe, e la cerco.
Entro in lei piano, mi avvolge, calda e bagnata, mentre ancora cerca la mia bocca.
Esco dal suo corpo. Mi stacco, fermandole la nuca con le mani.
Tu.
Mi.
Devi.
Guardare.
Sbatte gli occhi.
La sua bocca disegna un cerchio. Ha denti che brillano, su labbra lucide della mia saliva.
Rientro in lei, e spingo lento, a piccoli colpi.
Non si muove. Non respira. Assapora ogni millimetro della mia entrata, senza opporre resistenza.
Apri.
Gli.
Occhi.
Le sue mani scorrono sul mio collo. Sulle spalle, scendono sui glutei. Preme, apre gli occhi, mentre affondo ancora.
Dentro e fuori, in un moto ondoso di silenzio e pioggia, di sesso e fusione, perché non voglio soltanto farla venire, voglio che diventi acqua e cominci a scorrere dentro i miei argini voglio , per questa volta sentire il corpo che sto usando e piegarmi ai suoi ritmi e sussulti.
Spingo più a fondo.
Geme.
Mostra la gola.
Mi fissa, imprimendomi in testa parole che non conosco.
Affondo di più, mentre la stringo, senza schiacciarla.
La sua pelle. Contro la mia.
Sudore e caldo.
Ancora in lei, fino a farle emettere un gemito rauco.
L’orgasmo.
In testa.
Gola chiusa.
Muscoli tesi.
Vuoto.
Il suo cuore contro il mio.
Fuori ha smesso di nevischiare. Ora piove proprio.
Primo pomeriggio
Sono seduto sul divano in pelle, fumando la terza canna. Con whisky.
Piove ancora.
Lei. E’. Andata. Via.
E solo un biglietto, come un'unica orma.
Devo partire adesso. Forse è meglio così. Non sembri uomo da addii in aeroporto.
Grazie per averlo reso diverso.
Bevo.
Fumo.
Vuoto.
Mi alzo dal divano.
Cammino.
Non vedo.
Non sento.
Non parlo.
Come le scimmiette di legno sulle bancarelle.
Bevo di nuovo.
Tutto spento.
Non luci.
Non suoni.
Non io.
Cellulare. Francesco. «Se ne è andata.» voce piatta.
«Non doveva andare via domani sera?»
Fisso la pioggia. Non rispondo.
Si, doveva andare via domani.
Si, doveva andare via domani sera.
Stringo gli occhi, ed è come se parlassi da solo «Alle undici stamattina mi hanno chiamato dalla clinica.» ancora gocce che scendono e frantumano sul tetto a vetro «Dormiva. L’ ho svegliata e le ho detto che sarei tornato per pranzo.»
Se mi addormento tra le braccia di qualcuno, vorrei risvegliarmici.
Una lunghissima pausa «Mi sembra di notare una leggera delusione nel tono di voce.»
«Noti male. Ho già chiamato Carmen e stanno arrivando un paio di ragazze. Vuoi essere dei nostri?»
«No grazie...l'unica volta che abbiamo scopato in compagnia risale al liceo e non ho la minima intenzione di ripetere l'esperienza.»
Rido «Etero e gay in un' orgia per pochi intimi. Che momenti…Sei diventato San Francesco da Milano?»
Click.
FEBBRAIO 2009
Milano, primo mese
Notte
Scopare, scopare ancora scopare.
Cristo. Scopo e basta.
No, bevo anche troppo.
Fai schifo ragazzo.
Dov’è la vodka? Eccola…No, non è una bottiglia, ma un corpo «Chi cazzo sei?»
Un mugolio assonnato «Carlotta, non ricordi neanche il mio nome?»
«Che ore sono...» non apro nemmeno gli occhi.
«Le quattro del mattino.»
Respiro «Fuori dalle palle.»
«Stai scherzando? E’ piena notte!»
«Prendi cento euro e chiamati un taxi.»
«Stronzo. Sei ancora peggio di quanto raccontano.»
«Vattene.» Vaffanculo, dov’è la canna?
Fumo.
Bevo.
Mi gratto le palle e scopro di avere addosso l’odore della zoccola.
Un odore dolce, dal vago sentore di miele.
Una scossa.
Un odore che riporta ad un altro odore.
Una stilettata allo stomaco, che trancia il respiro.
Gaia.
«Torna qui.» dico.
«Cosa vuoi.»
Spengo la canna nel portacenere, via le lenzuola.
«Una pompa.» pausa «Non mi sembra difficile da capire.»
MARZO 2009
Milano, secondo mese
Sera
«Vieni a bere qualcosa da Christian?»
«No.»
Francesco sbuffa «Non sono uno psichiatra infantile, ma avresti già dovuto superare la fase del no da un bel pezzo. Che cazzo c' hai? Perché non ne parliamo una volta?»
Non lo guardo, mi limito a camminare verso il parcheggio.
«Eddai, confidati con il tuo amico...» continua.
Mi fermo, apro la porta della Toyota e lo guardo «Sono solo un po' stanco. Icaro, la Clinica, i corsi, le conferenze in giro per il mondo.»
Scuote la testa «Stronzate.» si sfrega le mani, buttando fuori aria dalla bocca «C'è qualcosa che non riesco a codificare. Quando sei così rognoso c'è sempre qualcosa sotto.»
«Te l'ho appena detto.»
«Troppo facile. Non è mai così con te.»
«Falla finita.»
Sorride, infossandosi un po' nel cappotto elegante grigio scuro «Se cambi idea sono da Christian fino alle dieci con qualche collega.»
«Non cambierò idea. Buona serata.» sono già in macchina e sto per chiudere la porta, quando la ferma.
«Perché non la contatti?»
Risposta da bambino «Chi?» Chiudo.
Casa.
Mi sento come quel cranio di E.T.
E non so perché.
APRILE 2009
Milano, terzo mese
Mattino
Francesco entra come un pazzo esagitato dentro il mio studio, chiudendo pure la porta a chiave.
Alzo la testa, mi appoggio allo schienale della sedia e lo guardo «Ci ha denunciato direttamente il Vaticano?» chiedo per niente interessato.
Oltrepassa la scrivania e ci sbatte sopra una rivista «Altro che fotografa di matrimoni e cresime. Guarda qui.»
National Geographic americano.
Testa che scoppia, respiro spaccato. Cuore, polmoni, occhi. Tutto immobile. Tranne lei, che sorride appena dalla copertina, abbracciata ad una macchina fotografica dei primi '900.
Non riesco a parlare. La fisso e basta, immobile .
Apro il giornale. Scorro le pagine, mi fermo. Foto. Le sue. Afghanistan.
Tocco la carta e leggo veloce l’articolo, una specie di intervista breve e narrata, un intervista dal titolo “ Liberi a divenire”, il nuovo lavoro di Gaia.
«Pensi ancora che non ne valga la pena?»
Alzo lo sguardo su Francesco, mi sento in blocco mentale qualche istante e improvvisamente tutto diventa urgente. No. Non tutto. Solo lei.
Follia.
Chiudo il National. Accendo una sigaretta. Fisso il vuoto.
«Matteo,ti è venuto un ictus?»
Mi appoggio allo schienale della poltrona e lo guardo «Sei ancora in contatto con quella giornalista attivista di Green peace?» la testa va a mille.
Annuisce, sedendosi sulla scrivania «Erika Angelucci. Si la sento ancora.» mi fissa, incrociando le braccia.
I miei occhi scivolano ancora sulla copertina. La sua pelle non è più lattea, ha preso una sfumatura guscio d’uovo. Anche i capelli sembrano ancora più chiari. Mi scappa un sorriso amaro.
Una Reporter san frontières, uomini e donne che si battono per la totale libertà di stampa. Moderni super eroi che non hanno paura di nulla, armati solo di macchine fotografiche, penne, coraggio e indipendenza. Come ho fatto a non capire? «Chiamala. Per lei sarà più facile contattare il giornalista che le ha fatto l’intervista.» Aspiro fumo. Butto fuori «e farsi dire dov’è Gaia. L' Afghanistan è grande.»
«Magari sta andando dietro a matrimoni Talebani e cresime indù.»
Ironia. Strano. Non è da lui. Mi giro e lo guardo «Rintraccia Erika evitando di fare della basso sarcasmo. Non ti si addice.»
Solleva le mani «Ok.» si alza «La chiamo subito.» arriva alla porta, gira la chiave. Si volta «Cosa intendi fare esattamente?»
«Sapere dov’è.»
«E poi?»
Aspiro ancora fumo. Sorrido «Non lo so. Sei tu il docente di Princiologia Azzurra…»
Scoppia ridere. «Proponile di venire con te a Kigali. Per una come lei sarebbe come andare a Busto Arsizio, prendendo le Ferrovie Nord in orario pendolare.»
«Io non vado a Kigali.» spengo la sigaretta cominciando a tamburellare la stilografica sulla scrivania.
«Già. Un vero peccato. Sei davvero bravo nella chirurgia d'urgenza.» risponde Francesco mentre esce, lasciandomi a fissare la porta chiusa.
Sfioro la foto, la porta si apre e la faccia imperturbabile di Lia appare «Dottor Edore, la stanno aspettando in sala operatoria.»
Stacco la mano e mi alzo «Sarò giù fra una quarto d’ora.»
Sera
“Ciao Matteo, sono Matilde, due giorni fa Anna mi ha detto che ti ha visto al Gasoline, ti eri dimenticato che dovevamo vederci? Richiamami, ciao.”
Click.
“Ciao tesoro, sono mamma. Vai a fare un giro a Villa Chiara, non è giusto che ci vada sempre Francesco, è anche casa tua, sai? Lilia dice che sono almeno due mesi che non ti fai vedere. Richiamami, ciao tesoro, baci... E chiama tuo fratello.”
Click.
“Sempre questa segreteria...Sono Sofia. Non ti darò tregua Matteo, devo parlarti, ti lascio il numero...”
Click.
Alzo gli occhi al cielo mentre cancello di default tutto ciò che la segreteria contiene. Non ho tempo per queste stronzate.
Doccia. Take way messicano. Sigaretta. Divano e sempre rock in sottofondo.
National Geographic.
Riguardo le foto all'interno. E' in mezzo al deserto afgano, con una macchina fotografica al collo e una in mano, che sta parlando con un marine, il doppio di lei. Sono presi di profilo. E poi foto di guerra. Crude. Eppure piene di mille parole non scritte.
Chiudo, fissando il nulla.
Fumo.
Bevo.
E sento un sorriso salire.
Guardo il giorno sorgere, filtrato grossolanamente dalle tende a lista in bambù nero che cadono rigide sul pavimento in tek lucido per tutta la lunghezza della parete vetrata.
Braccia incrociate dietro la testa, in fissa sulle lame di luce via via più splendenti, che sembrano tagliare l’aria immobile del loft.
Rumore di traffico e risvegli. Rumore da clima fine settimana.
Il click della segreteria ieri sera e ancora la voce di Sofia “ Matteo, ti chiedo solo dieci minuti...” Un brivido di fastidio al ricordo della voce incisa.
Mi alzo completamente nudo. Spalanco l'enorme porta finestra scorrevole, alla ricerca d’ aria.
Grigio e freddo.
Niente sole.
Niente verde.
Solo i tetti di corso Buenos Aires.
Mi passo una mano tra i capelli. Doccia. Caffé. CNN. Sigaretta. Lavoro.
E…
E?
E forse lei.
Gaia.
Butto giù caffé ascoltando di guerre, crolli di borse e similari come buongiorno, la prima sigaretta fumata distrattamente e in testa sempre e solo lei. Aspiro e penso. Penso che nessuna di loro è mai stata qui oltre lo stretto necessario e non sempre comprensivo di doppia scopata.
Penso che sia davvero strano che invece lei, in qualche modo, sia riuscita a farmi dire Vieni qui.
Penso che, per quanto assurdo, Gaia abbia trovato una traccia e, consapevole o meno, l’abbia seguita.
Trovandomi.
Abbasso lo sguardo e incontro quello del mio cazzo.
Scoppio a ridere mentre schiaccio la sigaretta in un portacenere di ardesia lucida verde.
Non ha seguito una traccia, solo chiare indicazioni.
Quelle del mio cazzo duro.
Ospedale
«Dottor Edore, una comunicazione interna.»
Ho appena asportato un utero, quando l’idiota dice proprio…“Dottor Edore, una comunicazione interna”.
«Non voglio essere disturbato quando opero.»
«E’ il dottor Canfora. Dice che importante.» insiste l’infermiere.
Il mio atteggiamento cambia «Lo passi in viva voce.»
Sguardi sfuggenti tra l’ equipe.
«Fai presto, sto operando.» dico piatto senza staccare gli occhi da quello che sto facendo.
«Appena finisci devi volare ai piani alti. Le Cariatidi ti stanno aspettando.» la voce di Francesco è ovunque nella sala operatoria.
Fermo la mano «Perché?»
«Non lo so, forse l’ennesimo gruppo anti abortista che hai traumatizzato ti ha denunciato, oppure sempre i tuoi amici di Voce Cattolica. Oppure qualche parlamentare. La lista delle tue cazzate è lunghissima...»
«O magari qualcuno ha avuto il coraggio di denunciarti per maltrattamenti emotivi.» una frase sussurrata nell’aria, tra bip e ronzii delle macchine, che non capisco da chi provenga visto che, due delle tre donne dell’equipe, me le sono scopato e il resto di loro mi vede solo come uno stronzo egocentrico.
Passo oltre «Esattamente…» continuo mentre scruto il malloppo di carne e sangue «chi ti ha detto di avvertirmi?»
Una pausa, poi «Tuo padre.»
Mi volto di scatto verso l'interfono, aspettando di vedere il vecchio apparirmi «Mio padre?»
«Direttamente da Kigali.»
Torno con l’attenzione sul tavolo operatorio «Aspiratore.» sbuffo sotto la mascherina «D’accordo, comunica pure alle Cariatidi che andrò fra un paio d’ore.»
Risata di Francesco «L’ intervento che stai facendo finirà molto prima.»
«Lo so, ma ho una sfida a Tekken con il dottor Riposi di ortopedia e non posso proprio mancarla. Se mi ritiro me la da persa. E non perdo mai a Tekken.»
«Purtroppo non perdi mai a niente.» Un altra voce anonima dalla mia equipe.
Sorrido.
Tre ore dopo
Fisso la punta della sigaretta chiedendomi se non sia il caso di far interdire il vecchio.
Non riesco ancora a crederci. No. Proprio no .
Prendo il telefono e faccio il numero del reparto di Francesco «Edore...Canfora.»
«Certo dottore, un attimo solo.»
Una manciata di secondi e la voce di Francesco «Dove sei?»
«Appena entrato nel mio studio.»
«Cosa è successo?»
«Il vecchio vuole che vada a Kigali per istruire alcuni ginecologi sulle tecniche più nuove di chirurgia mini invasiva e già che sono li anche un po' di day surgery. Credi sia demenza senile? Sta storia del suo volontariato con Medici senza Frontiere comincia ad essere ridicola.»
«E' sempre stato uno di loro ed ora che tutte le sue cliniche sono in mani sicure, fa esattamente quello che avrebbe voluto fare da almeno vent'anni. Il Medico senza frontiere a tempo pieno.»
Aspiro. Butto la cenere. Scuoto la testa «Non metto in discussione la sua scelta, metto in discussione il fatto che voglia tirarmi dentro. Sono finiti da secoli i tempi in cui poteva esercitare un certo tipo di autorità su di me.»
«Quando avresti dovuto andare?»
«Secondo lui, oggi.»
«Beh, non è da tutti avere come figlio l’enfant prodige della figa e tutto ciò che ci gira intorno.» Scoppia a ridere poi si riprende «Ma naturalmente avrai risposto di no.»
«Infatti. In Ruanda e similari non ci torno nemmeno morto.»
«Mai dire mai nella vita e...»
Lo interrompo «Niente mi porterà mai più in una zona di guerra qualsiasi. Niente. Sei tu quello che ci va io mi occupo di disastri e calamità. Il vecchio troverà qualcun altro. Non sono certo l’unico al mondo ad usare da Dio entrambe le tecniche.» Faccio una pausa «Ho chiesto a Gaia di venire a stare da me finché non parte.»
Un silenzio dall’altra parte.
«E quando va via?»
«Lunedì sera.»
Uno schiocco di labbra, seguite da una specie di grugnito «O Gesù.»
«Lascia stare il mitomane. E' solo sesso. Giorni interi di scopate.»
«C'è qualcosa che non mi torna. Scopate o no, non c'è stata mai nessuna donna che si è installata per più di sei ore a casa tua. Nemmeno Sofia, nemmeno quella che viene a farti le pulizie.»
«Non rompe il cazzo e ha qualcosa di disarmante, ma non credo che disarmante sia l'aggettivo giusto.»
«Posso dirti cosa penso?»
«Lo fai comunque.»
«Te l’ ho già detto. Arrenditi, non puoi fare altro. E’ il fulmine divino.»
Mi tocco i coglioni. Lui continua «Ci vediamo dopo da Christian per una birra?»
Stringo le mascelle.
Posso scegliere.
Posso ancora scegliere.
Uscita con Francesco. Non lei.
Casa. Lei.
«No, un’altra sera.»
Lo sento ridere mentre chiude. Click.
In testa She wants it di Timberlake feat 50 cent.
Sera, loft
Una strada.
Buia.
L’ululato di qualcosa.
Lupi, forse.
Io che mi muovo come Matrix, occhialini neri compresi, silenzioso e letale.
Una figura in sottofondo.
Francesco.
Non mi ha visto.
Ma io si.
Mi nascondo dietro un albero. Grosso e contorto. Aspettando che passi, per poi saltargli addosso e renderlo una poltiglia di carne e sangue. Dargli fuoco. E mettere il filmato su You tube.
Così.
Per divertimento.
Figlio di puttana.
Lo osservo cattivo mentre, appoggiato ad un pilastro in ferro aperto del loft fa il cretino con una starletta nazionale, sembrando etero.
Lo farò presente ad Alessandro. Quando lo conoscerò. Se lo conoscerò.
Do l’ennesima golata di whisky. Stringo le labbra. Più di trenta persone in casa. In casa mia. Stasera. Proprio stasera. Francesco ha tirato su gente come se fosse il figlio segreto di Lele Mora ai bei tempi.
«Ciao, sono di Schok! Me le concedi due chiacchiere informali?»
Altra golata. Dov' è Gaia? Muovo gli occhi, cercando di trovarla nel casino. Dio Cristo. Eccola.
Digrigno i denti, involontariamente, mentre tiro giù altro whisky.
«Scusami, non mi sono nemmeno presentata.» pausa pirotecnica «Chiara Redaelli. Giornalista di rosa.»
Appoggio la bottiglia sul tavolino basso di fianco al divano e mi accendo una sigaretta, incastrandola tra le dita. Altro sorso. Non riesco a staccare gli occhi da Gaia. E dai quattro che la circondano, completamente avvolti da lei. Rapiti.
Fumo.
«Prometto che non pubblicherò niente se prima non mi dai l’autorizzazione.»
Se la stanno mangiando con gli occhi. Il solito calore a testa e cazzo, ma non mi muovo. Rimango li. A bere. Fumare. Guardare.
«Mi stai ascoltando almeno?»
Vedo Gaia due ore fa che entra in casa, sorridendo, tirandosi dietro un piccolo trolley rosa e un computer super rinforzato visto solo ai Marine nella guerra del golfo tranne, presumo, per il piccolo mouse ottico a forma di acquario gay. Con tanto d'acqua dentro.
Vedo Gaia che si infila una tuta grigio perla e sparge piccole tracce di se per tutta casa.
Una pila di dvd di fantascienza. Un barattolo gigante di gelato alla nocciola. Bacchette cinesi per i capelli. Fanta in frigo. Un asciugamano rosa. Mi sono immaginato un sacco di cose due ore fa, tranne questo casino.
«Sei la persona più maleducata che abbia mai conosciuto…»
Mi volto verso la voce. Bel viso. Poche tette. Belle labbra.«Chiudi la bocca o usala per qualcosa di utile.» mi tocco il cazzo, casomai non avesse capito.
«Vaffanculo!» Sempre, sempre lo stesso copione.
Torno a guardare Gaia, un copione a quanto pare invece, ancora tutto da leggere. Bevo di nuovo.
«Sembri uno dell’anonima alcolisti che ha appena fallito i dodici passi.» Francesco.
«Sono le undici e mezza. A mezzanotte vi voglio fuori dai coglioni.» sibilo, continuando a bere .
«D’accordo. Mi sono divertito abbastanza.» sorride da presa per il culo, abbassato alla mia altezza.
Stacco lo sguardo da Gaia e lo sposto su di lui «Divertito?»
Annuisce «Sono anni che cerco il modo di fartela pagare per tutte le volte che hai fatto lo stronzo con i miei fidanzati. Poterti rovinare una serata che aspettavi era un occasione perfetta. Altro momento Master card.»
Sono dentro lo spot e la voce fuori campo dice “Ci sono cose che non hanno prezzo“
«Vaffanculo Francesco.» Tono cambiato. E’ diventato scherzoso. I momenti Master card sono sacri.
Si gira, torna a guardarmi «La signora D’Este non ti ha considerato tutta la sera.» Socchiude gli occhi e mi scruta come se dovesse mettermi un filler antirughe «Forse il luccichio che vediamo intorno a lei non è polvere di fata ma il riflesso dell'acciaio.» Lo allontano. Mi gira la testa «E tu sei geloso…» sentenzia.
«Portami in bagno e sbattimi sotto la doccia. Poi fuori dalle palle. Tutti. Tranne Gaia.»
Milano, sabato mattina
Rumore di dita che battono veloci su una tastiera
Odore di pane al burro, vaniglia e limone.
Odore da casa alla Mulino bianco.
Dio Cristo.
Sete.
Apro gli occhi.
Li richiudo.
Rotolo su un fianco e la testa ha un rimbombo.
Dolore.
Gola di carta vetrata.
Sete.
Caldo.
Che il Mulino bianco stia andando a fuoco? Sorrido appena, poi lentamente riapro le palpebre. Un miraggio. A fatica, allungo una mano e prendo la bottiglia d’acqua che spunta da un cestello da champagne pieno di ghiaccio. Senza la forza di mettermi seduto bevo, come se fossi in mezzo al deserto tra dune roventi e non avvolto dalle mie lenzuola di seta blu cobalto.
Devo alzarmi.
Butto giù le gambe dal letto prendendo un lungo respiro e mi infilo in bagno.
Mi appoggio al bordo del lavandino in pietra, lungo due metri. Alzo la testa verso l' intera parete a specchio.
Cazzo, chi è quello li?
Dieci minuti dopo, bagnato e con in bocca ancora il sapore del dentifricio, oltrepasso la zona salotto illuminata solo da luce naturale che filtra attraverso le pareti panoramiche a vetri, lungo quasi tutto il perimetro del loft. Sembra di essere sospesi dentro un gigantesco acquario ed è esattamente così che lo volevo. Una tana senza pareti e cazzate inutili. Una tana dove poter prendere lunghi respiri.
«Come stai?» mi chiede Gaia gentile, a bassa voce. E’ seduta sul divano, con il Marine pc appoggiato su un cuscino che si è messa davanti e in bocca una biro per traverso. Come un pugnale.
«C’è odore di pane al burro in questa casa. E di limone.» la testa mi scoppia «Che ore sono?»
«Le tre del pomeriggio…» Si alza, sparisce quasi dietro l'isola in marmo «Ti preparo una colazione da dopo sbornia. Le colazioni e i dolci sono l'unica cosa che so fare a fortune alterne. In cucina credo di essere la negazione fatta a persona.»
Chiudo e apro gli occhi sentendo la testa rimbombare leggermente.«Cosa è successo ieri sera?» non riesco a smettere di fissarla.
Indossa una tuta aderente verde militare, di quelle con cappuccio, con la zip aperta davanti e alza le spalle «Hai semplicemente bevuto troppo e con Francesco ti abbiamo messo a letto. Davvero molto simpatico il tuo amico.»
Mi siedo all'isola prendendomi la testa fra le mani. Dio Cristo, quanto ho bevuto? Mi sembra anche di sentire Britney Spears cantare. Non posso essere ancora ubriaco.«Britney Spears?» chiedo sentendo un bolo di vomito salirmi dalla gola.
Ride, mentre mi porge un caffé doppio nero «Adoro Britney e Ooh ooh baby mi mette di buon umore.» Ancheggia, dondolando un po’ la testa, seguendo la musica.
Mi stropiccio la fronte portando alle labbra il caffé «Magari mi farai ascoltare anche tutto il meglio di Rhianna e che so, i Backstreet Boys. Che mi dici delle Pussycat Dolls?»
Si siede davanti e aspiro una eco lontana che sa di erba appena tagliata.
«Li adoro tutti!» scherza spalancando gli occhi «Ma ti informo che non scenderò a compromessi con Britney, Mika e…Ti farò avere una lista.» sorride mentre reclina la testa, cantando il ritornello.
«Gusti musicali di una dodicenne. Hai le foto dei Tokio Hotel nel portafoglio?» tento di fare il serio ma è davvero dura perché scoppia a ridere, ed è una risata leggera che penetra pelle e carne, diretta fin nello stomaco.
Britney, intanto, ha lasciato il posto proprio alle Pussycat Dolls, almeno credo siano loro. Cazzo di male in peggio. Cosa verranno dopo? I Sunrise Avenue?
Un bip, poi un altro bip.
Si alza, va al suo computer, le osservo il fondo schiena, batte qualche tasto, poi torna «Scusa, ho approfittato della tua rete wireless.» Si guarda intorno « Non ho mai visto una casa più domotica di questa.»
«Non sono un patito della tecnologia, ma tutto ciò che semplifica la vita è qui dentro. Cosa vuoi fare stasera?» chiedo piatto mentre finalmente sento il caffè caldo scendermi in gola.
Alza gli occhi, sporge in fuori un po’ le labbra, poi si tira indietro i capelli.
Mi costringo a rimanere seduto, anche se ho voglia di alzarmi e schiacciarla contro il frigo nero e lucido, vedere la superficie diventare opaca e umida del suo sudore, ho voglia di prenderla in piedi e baciare la sua pelle fino a scavarla.
«Che ne dici di una cena fuori? Magari come marito e moglie...» si alza, e una manciata di istanti dopo è di nuovo seduta con davanti una tazza da latte e cioccolato.
Contraggo la fronte. Marito e moglie? Osservo un istante il frigo «Cosa?» le tempie tornano a rimbombare.
Butta indietro la testa scoppiando a ridere «Era una battuta!» Beve un sorso di latte. I suoi occhi nei miei. Britney di nuovo. Gimme more.
Mi accendo una sigaretta cominciando a far girare l’accendino fra le dita poi sposto la tazza di fianco e mi sporgo sul tavolo «C’è un letto di là.»
Si morde un labbro mentre sposta anche lei la tazza «E’ davvero così urgente che noi facciamo sesso adesso?» un sussurro. Che sa di arresa o vittoria.
E davvero così urgente, ora e subito? «Sei qui per questo.» rispondo senza staccarle gli occhi dal viso.
Continua a guardarmi, tranquilla, mentre schiude le labbra in un altro sorriso.
Allungo una mano, le sfioro la tuta, infilo un dito sotto la zip aperta e faccio scivolare via la stoffa dalla sua pelle. Pelle chiara. Liscia. Spalle rotonde, ma non esili. Seni pieni e alti, che premono contro una specie di canotta a costine bianca. Scommetto che ha capezzoli rosa e piccoli che si tendono appena vengono sfiorati.
Non si muove. Ha solo socchiuso gli occhi.
Stacco il dito, mi allontano e alzo. Il suo polso imprigionato in una mano e la tiro via dalla sedia.
Basta giocare.
Il cellulare squilla. Quello del lavoro. Quello a cui non puoi non rispondere.
Gaia inarca un sopracciglio cercando di individuare il suono.
La libero, apro il forno a microonde, prendo il cellulare. E’ la clinica.
Ovviamente.
Rimango in ascolto qualche istante facendo vagare lo sguardo oltre i vetri, poi annuisco «D’accordo. Mi vesto e arrivo.»
Lancio il cellulare sul grande divano in pelle verde scuro e cuscini rossi poi mi volto, guardandola «Devo andare in clinica. C’è la solita ispezione nel reparto Hospice.»
«Succede spesso?» si tira su la manica e riprende in mano la tazza.
Ha il respiro leggermente affannoso, il colorito un po’ più rosa.
«Si, succede spesso. Usiamo marijuana per alcuni pazienti terminali e i carabinieri vengono a controllare che non facciamo spaccio.» sorrido quasi. «In effetti la do anche a qualsiasi paziente non terminale che me la chiede, ma non sono ancora riusciti a provarlo.» riprendo la tazza finendo di bere il caffè «Due mesi fa Schok! Mi ha soprannominato dottor Escobar. Quel settimanale mi da delle grandi soddisfazioni. Forse avrei dovuto farla l'intervista ieri sera.»
«E’ come se tu ostentassi il dono della laicità medica allo stato puro, senza fobie e retorica...» comincia tirando i piedi sulla sedia, appoggiando il mento sulle ginocchia «e in questo paese, sembra essere un grosso problema. Siete fobici su un sacco di cose e tu sei estremo.»
«Fino a ieri fa non sapevi nemmeno chi fossi.»
Alza le spalle «Ho fatto qualche ricerca e non è stato difficile. Hai anche dei fans club.» mi fissa rilassata.
Ho il cuore in gola e non so perché «Devo andare, tu fa cosa vuoi. Nella ciotola egiziana, sotto i preservativi, ci sono le chiavi di casa, mentre nella cinese quelle della Toyota. Se preferisci c'è anche un Mercedes.»
Scoppia a ridere «La carta di credito, invece?»
Faccio per parlare, ma non riesco.
Penso solo.
Tu.
Sei.
Mia.
Sera
Torno a casa che sono le otto passate. Mi danno il benvenuto penombra e silenzio.
Tolgo il cappotto, accendo le luci, globi di chiarore nascosti agli angoli del muro bianco ghiaccio a sinistra mentre altre invece, sono incassate nel pavimento in tek scuro.
Oltrepasso il loft ed in fondo, la mia camera.
Dorme.
Nel mio letto.
Mi tolgo la camicia, mentre non smetto di fissarla, allargando le narici per assaporare il suo profumo sempre meno estraneo. E’ su un fianco con il cuscino perpendicolare, un ginocchio piegato e le labbra chiuse.
Tolgo le scarpe.
Lei continua a respirare lenta.
Mi avvicino. E scruto ogni centimetro di quel corpo. Un corpo che sembra avere invaso ogni mia fottutissima cellula. Perchè è come giocare a mosca cieca in territorio sconosciuto, dove nemmeno i suoni e gli odori hanno sfumature già sentite.
Mi siedo sul letto.
Questa donna è un viaggio, fatto di regole infrante e continui cambi di percorso.
Mi viene da sorridere.
Una cosa nuova.
Mi stendo al suo fianco, puntandomi con il gomito.
La sfioro.
Si muove.
La sfioro ancora.
Gira leggermente la testa «Meno male. Non ti hanno arrestato…» un sussurro assonnato, pigro «mi vedevo già ad organizzare un sit in pacifico di protesta.»
«L’avresti fatto?»
Non ci pensa nemmeno «Certo…» si rannicchia un po’ su stessa «Perché, tu no per me?»
Ci rifletto un istante «No, io no.»
Prende un respiro profondo. Si stropiccia il naso, poi si mette seduta, ancora con una certa lentezza . Le fisso schiena e capelli.
Si volta a tre quarti «Non ci credo. E non riuscirai a convincermi del contrario.» sorride.
Appoggio la schiena sulla testiera in pelle nera e sento lo stomaco aggrovigliarsi «Combatto solo le mie battaglie, non ho mai posseduto un mantello azzurro e non sono allergico alla Kriptonite.»
«Lo so, oggi ti ho lavato il mantello nero e la fodera viola della bara.» si morde un labbro per trattenere un sorriso.
Scoppio a ridere mentre la vedo scendere dal letto e indicarmi con un dito di girarmi a pancia in giù.
Eseguo, mentre ancora rido, ma smetto subito perché lei…«Che cosa stai facendo?» mi punto sui gomiti, mentre siede ancora più saldamente sui glutei e avvicina la bocca alle mie orecchie
«Solo dirti delle cose. Rimettiti giù...Per favore.» Chiudo gli occhi. La sento muoversi e aderire. «Sono alta uno e settantadue e peso cinquantadue chili…» il suo volto nell’incavo del mio collo «tu invece?»
Giro la testa, senza aprire gli occhi «Uno e novanta, per quasi ottanta chili.» non riesco a capire dove voglia arrivare.
Scivola di lato, infilandosi sotto di me. Le faccio spazio, sfiorandola appena. Viso contro viso. Occhi contro occhi.
«Niente conflitti Matteo. Soprattutto a letto.» si concede un sorriso «A differenza tua non ho il fisico e…» smette di sorridere «vorrei che questa sera e la prossima non si trasformino in un ring.»
Le prendo un polso e poi l’altro sollevandoli sopra la testa.
Non oppone nessuna resistenza.
E continua a parlami «Vorrei che fosse diverso…»
Appoggio le labbra sulla sua gola, mordicchio piano, graffiandola intenzionalmente con la barba di due giorni. Si flette, mentre scendo e ho lo stomaco di lava.
Pelle alta, brividi, freddo. Mi fermo, perché la ragione ha massacrato l’istinto e le sue parole mi entrano in testa. Vorrei che fosse diverso. Diverso da cosa? Pensieri che arrancano, il cazzo pulsa, i suoi capezzoli duri sotto la maglietta contro la mia. La libero e mi alzo.
Ho voglia di arrotolare un dito tra i suoi capelli.
Ho voglia di tornare da lei e disegnarle addosso strade di saliva.
Allargo le dita, come per sgranchirle, mi chino. E’ ancora stesa «Diverso da me o diverso da te?» chiedo.
Mi studia, con occhi grandi e languidi e penso che solo uno come Neruda possa descrivere tanta bellezza.
«Non ha importanza. Solo diverso.»
Notte
Si volta.
Si rannicchia.
Si avvolge dentro il mio corpo, aderendo alla pelle come se ci fosse sempre stata.
La circondo stringendola, cercando di non svegliarla.
Affondo il naso nei suoi capelli e respiro.
Chiudo gli occhi. Tento di riaddormentarmi.
Non l’ ho nemmeno scopata.
Milano, domenica quattro del mattino
Sono seduto immobile al centro della palestra. Esattamente nel rettangolo di luce che filtra dalla grande finestra. Ad osservare la notte. E la luna. E i lampioni. E la pioggia mischiata a neve.
Male ovunque da tanto mi sono allenato.
Non ce l’ ho fatta a rimanere, ad ascoltare il suo respiro regolare, ad essere custode del suo sonno, a non tirarle via quella cazzo di maglietta e scoparla.
Afferro l’asciugamano e asciugo sudore.
Me ne sono andato. E sono venuto qui, in palestra, a massacrare sacchi e carne, finché ho avuto forza.
Scappi?
Ancora fermo a fissare luna e notte. E nevischio.
Quante paranoie. Domani sera se ne va, cosa ti importa…
Niente.
Un bussare leggero, ma deciso. Mi volto verso la porta, guardando subito l’orologio a parete. Le quattro. Di notte. Apro, sperando non sia qualcuna di loro. Me le sono ritrovate in posti impensabili, compreso la piramide di Cheope e il Darling a Praga.
Apro.
Francesco «Allora la cosa è grave.»
«Che cazzo ci fai in giro alle quattro del mattino?»
«Forse è più strano che tu sia in palestra.» passa oltre, entrando «Sono andato a fare la mia quota di ore al Consultorio e, tornando a casa, ho visto il Mercedes sotto.» si guarda intorno «E Gaia dov'è?» tono da presa per il culo «Non è venuta a vedere Van Damme in bello che si allena?»
Lo sorpasso, raccogliendo il borsone e infilandoci dentro l’asciugamano .
Lui continua «Allora dottore…le ultime notizie davano la signorina D’Este a casa tua fino a lunedì, ma tu sei qui e non là a scopartela» alza un po’ il mento e sogghigna «Avevo ragione. E’ davvero grave. Qui non è più il fulmine divino, è il big bang divino.» avvicina la faccia alla mia e continua a sogghignare.
Lo guardo come se fosse un povero idiota, poi vado verso le docce. Un passo. Due. Tre. Mi fermo e mi giro. Dalla posizione in cui sono, Francesco è solo un ombra stagliata alla luce pallida dei lampioni. Mi gratto la fronte e sorrido muto «Soffrivo d'insonnia. Non sono abituato ad avere donne nel letto. A dormire.»
«Cazzate…»
Scuoto la testa «Time out Francesco. Riprendiamo questa conversazione martedì sera da Christian. Ora mi doccio e torno a casa. A scoparmela…»
Allarga le braccia, che sono ombre nere «Ok. A lunedì allora. Notte Van. A proposito...E' passata Sofia stasera al consultorio.»
Mi blocco, fissando il corridoio deserto delle docce.
Nessun rumore.
Solo quello del mio cuore che sembra rimbombare per la gigantesca palestra.
«Mi ha detto di salutarti.»
«Niente altro?»
«Riparte domani per un progetto con una clinica a Boston e starà via parecchio. Ti scriverà una mail.»
Prendo un respiro «Bene. Buonanotte Francesco.»
Rientro un ora dopo e trovo Gaia seduta sul divano, a mangiare gelato alla nocciola e scrivere sul Marine pc, con tutto il migliore repertorio dei Backstreet boys.
Odore di brioche calde e marmellata di arance. Chissà, magari esce Nonna Papera dalla cucina adesso…
Alza il viso «Se mi addormento tra le braccia di qualcuno, vorrei risvegliarmici.Anche se è una scopata.» nessuna accusa nel tono che mi raggiunge nella penombra. Nessun lamento o recriminazione nascosta. Solo una richiesta.
Appoggio sul pavimento il borsone e mi siedo al suo fianco. «Cosa ci fai al pc alle cinque del mattino?»
Si volta appena. Appoggia il barattolo di gelato sulla tastiera «Aspettavo che tornassi.»
I miei occhi si allargano nella semioscurità cercando di catturare i suoi, illuminati dal monitor.
Stomaco stretto.
Tutto è diventato immobile.
L’aria. L' ossigeno. La notte. Milano.
Ma non lei, e prima che possa farlo io e già seduta sopra di me, con le mani appoggiate sulle spalle.
Faccia contro faccia, le sue labbra vicinissime. Il suo respiro. Il cuore che posso sentire.
Infilo un mano sotto la sua tuta, mentre con l’altra slaccio il sottile cordino. Scendo, lentamente, perché non voglio essere invadente, perché forse è questo che lei vuole, la diversità che cerca.
Gesti dolci e romanticismo, anche se il mio cazzo la pensa in tutt’altro modo.
Ma ancora una volta stravolge ogni dogma.
Si avvicina.
Le sue labbra. Un tocco che è un assaggio. La sua lingua che si insinua ed è chiaro chi conduce.
E’ lei che ha in mano la situazione, e non ha nemmeno avuto bisogno di spargere sangue per ottenere il privilegio.
Non so come mi spinge ad accettare, a rilassarmi sullo schienale del divano e lasciarmi controllare dalla sua bocca, che non è aggressiva e nemmeno smielatamene dolce, è solo.
Si allontana «Dove sei…» mi chiede.
Non apro nemmeno gli occhi «Dentro la tua bocca.»
Ride, al di la delle mie palpebre chiuse «Romanticamente carnale…» mi sussurra sulle labbra, e preme sul mio inguine.
Le mani scattano sulla sua vita, stringendola. La sollevo appena. Sorrido io «Se vuoi che davvero sia diverso…smettila…»
Trattiene il respiro mentre la sposto e la sdraio sul divano. Di nuovo sopra. Come ieri, quando mappava a voce i nostri corpi. Sempre ritorni con lei, ore spezzate che si riconnettono a piacimento, fregandosene delle regole. Ma stamattina è diverso.
Un tuono.
Acqua.
Buio.
Nessuna voglia di scoparla con leggerezza, solo lenti percorsi.
Le sue mani scivolano sotto la mia maglietta, la sollevano.
E tolgono.
La sua fa la stessa fine.
Nessuna fretta.
Tempo fermo.
Lei che si libera dai pantaloni della tuta senza smettere di fissarmi, io che scopro che tutto diventa niente a parte la donna che sto gustando e toccando, in maniera non convenzionale, almeno non per me.
La bacio. La ascolto con la pelle, mentre si tende ad arco,la sento aderire con i suoi capezzoli duri, la sento mordicchiarmi la giugulare.
Voglia che tracima dalle cellule, e non da scopata cattiva, ma da gustare lentamente.
Infilo un ginocchio tra le sue cosce, le allargo, mentre scendo sulla gola, un seno, l’ ombelico.
Ha peluria bionda e morbida, un rettangolino quasi invisibile sulla pelle chiara.
Affondo il viso tra le sue cosce e l’assaggio.
Le stringo i fianchi, mentre la penetro con la lingua e comincio a giocare con il suo clitoride.
Ha un sapore delizioso.
Scivola più sotto, alzandomi la testa.
La osservo, ancora in penombra, mentre stringe gli occhi a fessura e mi invita a fare altro.
Una piccola fata del cazzo malefica e bellissima, e fuori il temporale che sta svanendo .
Accompagna la risalita verso di lei, incrociando le mani dietro la mia nuca.
La bacio. Le faccio assaggiare il suo sapore, invadendole la bocca , non lasciandole scelta e si comporta come se non la volesse, una scelta.
Preme sulla mia testa, per affondare di più nel bacio, mentre infilo una mano di nuovo fra le sue gambe, e la cerco.
Entro in lei piano, mi avvolge, calda e bagnata, mentre ancora cerca la mia bocca.
Esco dal suo corpo. Mi stacco, fermandole la nuca con le mani.
Tu.
Mi.
Devi.
Guardare.
Sbatte gli occhi.
La sua bocca disegna un cerchio. Ha denti che brillano, su labbra lucide della mia saliva.
Rientro in lei, e spingo lento, a piccoli colpi.
Non si muove. Non respira. Assapora ogni millimetro della mia entrata, senza opporre resistenza.
Apri.
Gli.
Occhi.
Le sue mani scorrono sul mio collo. Sulle spalle, scendono sui glutei. Preme, apre gli occhi, mentre affondo ancora.
Dentro e fuori, in un moto ondoso di silenzio e pioggia, di sesso e fusione, perché non voglio soltanto farla venire, voglio che diventi acqua e cominci a scorrere dentro i miei argini voglio , per questa volta sentire il corpo che sto usando e piegarmi ai suoi ritmi e sussulti.
Spingo più a fondo.
Geme.
Mostra la gola.
Mi fissa, imprimendomi in testa parole che non conosco.
Affondo di più, mentre la stringo, senza schiacciarla.
La sua pelle. Contro la mia.
Sudore e caldo.
Ancora in lei, fino a farle emettere un gemito rauco.
L’orgasmo.
In testa.
Gola chiusa.
Muscoli tesi.
Vuoto.
Il suo cuore contro il mio.
Fuori ha smesso di nevischiare. Ora piove proprio.
Primo pomeriggio
Sono seduto sul divano in pelle, fumando la terza canna. Con whisky.
Piove ancora.
Lei. E’. Andata. Via.
E solo un biglietto, come un'unica orma.
Devo partire adesso. Forse è meglio così. Non sembri uomo da addii in aeroporto.
Grazie per averlo reso diverso.
Bevo.
Fumo.
Vuoto.
Mi alzo dal divano.
Cammino.
Non vedo.
Non sento.
Non parlo.
Come le scimmiette di legno sulle bancarelle.
Bevo di nuovo.
Tutto spento.
Non luci.
Non suoni.
Non io.
Cellulare. Francesco. «Se ne è andata.» voce piatta.
«Non doveva andare via domani sera?»
Fisso la pioggia. Non rispondo.
Si, doveva andare via domani.
Si, doveva andare via domani sera.
Stringo gli occhi, ed è come se parlassi da solo «Alle undici stamattina mi hanno chiamato dalla clinica.» ancora gocce che scendono e frantumano sul tetto a vetro «Dormiva. L’ ho svegliata e le ho detto che sarei tornato per pranzo.»
Se mi addormento tra le braccia di qualcuno, vorrei risvegliarmici.
Una lunghissima pausa «Mi sembra di notare una leggera delusione nel tono di voce.»
«Noti male. Ho già chiamato Carmen e stanno arrivando un paio di ragazze. Vuoi essere dei nostri?»
«No grazie...l'unica volta che abbiamo scopato in compagnia risale al liceo e non ho la minima intenzione di ripetere l'esperienza.»
Rido «Etero e gay in un' orgia per pochi intimi. Che momenti…Sei diventato San Francesco da Milano?»
Click.
FEBBRAIO 2009
Milano, primo mese
Notte
Scopare, scopare ancora scopare.
Cristo. Scopo e basta.
No, bevo anche troppo.
Fai schifo ragazzo.
Dov’è la vodka? Eccola…No, non è una bottiglia, ma un corpo «Chi cazzo sei?»
Un mugolio assonnato «Carlotta, non ricordi neanche il mio nome?»
«Che ore sono...» non apro nemmeno gli occhi.
«Le quattro del mattino.»
Respiro «Fuori dalle palle.»
«Stai scherzando? E’ piena notte!»
«Prendi cento euro e chiamati un taxi.»
«Stronzo. Sei ancora peggio di quanto raccontano.»
«Vattene.» Vaffanculo, dov’è la canna?
Fumo.
Bevo.
Mi gratto le palle e scopro di avere addosso l’odore della zoccola.
Un odore dolce, dal vago sentore di miele.
Una scossa.
Un odore che riporta ad un altro odore.
Una stilettata allo stomaco, che trancia il respiro.
Gaia.
«Torna qui.» dico.
«Cosa vuoi.»
Spengo la canna nel portacenere, via le lenzuola.
«Una pompa.» pausa «Non mi sembra difficile da capire.»
MARZO 2009
Milano, secondo mese
Sera
«Vieni a bere qualcosa da Christian?»
«No.»
Francesco sbuffa «Non sono uno psichiatra infantile, ma avresti già dovuto superare la fase del no da un bel pezzo. Che cazzo c' hai? Perché non ne parliamo una volta?»
Non lo guardo, mi limito a camminare verso il parcheggio.
«Eddai, confidati con il tuo amico...» continua.
Mi fermo, apro la porta della Toyota e lo guardo «Sono solo un po' stanco. Icaro, la Clinica, i corsi, le conferenze in giro per il mondo.»
Scuote la testa «Stronzate.» si sfrega le mani, buttando fuori aria dalla bocca «C'è qualcosa che non riesco a codificare. Quando sei così rognoso c'è sempre qualcosa sotto.»
«Te l'ho appena detto.»
«Troppo facile. Non è mai così con te.»
«Falla finita.»
Sorride, infossandosi un po' nel cappotto elegante grigio scuro «Se cambi idea sono da Christian fino alle dieci con qualche collega.»
«Non cambierò idea. Buona serata.» sono già in macchina e sto per chiudere la porta, quando la ferma.
«Perché non la contatti?»
Risposta da bambino «Chi?» Chiudo.
Casa.
Mi sento come quel cranio di E.T.
E non so perché.
APRILE 2009
Milano, terzo mese
Mattino
Francesco entra come un pazzo esagitato dentro il mio studio, chiudendo pure la porta a chiave.
Alzo la testa, mi appoggio allo schienale della sedia e lo guardo «Ci ha denunciato direttamente il Vaticano?» chiedo per niente interessato.
Oltrepassa la scrivania e ci sbatte sopra una rivista «Altro che fotografa di matrimoni e cresime. Guarda qui.»
National Geographic americano.
Testa che scoppia, respiro spaccato. Cuore, polmoni, occhi. Tutto immobile. Tranne lei, che sorride appena dalla copertina, abbracciata ad una macchina fotografica dei primi '900.
Non riesco a parlare. La fisso e basta, immobile .
Apro il giornale. Scorro le pagine, mi fermo. Foto. Le sue. Afghanistan.
Tocco la carta e leggo veloce l’articolo, una specie di intervista breve e narrata, un intervista dal titolo “ Liberi a divenire”, il nuovo lavoro di Gaia.
«Pensi ancora che non ne valga la pena?»
Alzo lo sguardo su Francesco, mi sento in blocco mentale qualche istante e improvvisamente tutto diventa urgente. No. Non tutto. Solo lei.
Follia.
Chiudo il National. Accendo una sigaretta. Fisso il vuoto.
«Matteo,ti è venuto un ictus?»
Mi appoggio allo schienale della poltrona e lo guardo «Sei ancora in contatto con quella giornalista attivista di Green peace?» la testa va a mille.
Annuisce, sedendosi sulla scrivania «Erika Angelucci. Si la sento ancora.» mi fissa, incrociando le braccia.
I miei occhi scivolano ancora sulla copertina. La sua pelle non è più lattea, ha preso una sfumatura guscio d’uovo. Anche i capelli sembrano ancora più chiari. Mi scappa un sorriso amaro.
Una Reporter san frontières, uomini e donne che si battono per la totale libertà di stampa. Moderni super eroi che non hanno paura di nulla, armati solo di macchine fotografiche, penne, coraggio e indipendenza. Come ho fatto a non capire? «Chiamala. Per lei sarà più facile contattare il giornalista che le ha fatto l’intervista.» Aspiro fumo. Butto fuori «e farsi dire dov’è Gaia. L' Afghanistan è grande.»
«Magari sta andando dietro a matrimoni Talebani e cresime indù.»
Ironia. Strano. Non è da lui. Mi giro e lo guardo «Rintraccia Erika evitando di fare della basso sarcasmo. Non ti si addice.»
Solleva le mani «Ok.» si alza «La chiamo subito.» arriva alla porta, gira la chiave. Si volta «Cosa intendi fare esattamente?»
«Sapere dov’è.»
«E poi?»
Aspiro ancora fumo. Sorrido «Non lo so. Sei tu il docente di Princiologia Azzurra…»
Scoppia ridere. «Proponile di venire con te a Kigali. Per una come lei sarebbe come andare a Busto Arsizio, prendendo le Ferrovie Nord in orario pendolare.»
«Io non vado a Kigali.» spengo la sigaretta cominciando a tamburellare la stilografica sulla scrivania.
«Già. Un vero peccato. Sei davvero bravo nella chirurgia d'urgenza.» risponde Francesco mentre esce, lasciandomi a fissare la porta chiusa.
Sfioro la foto, la porta si apre e la faccia imperturbabile di Lia appare «Dottor Edore, la stanno aspettando in sala operatoria.»
Stacco la mano e mi alzo «Sarò giù fra una quarto d’ora.»
Sera
“Ciao Matteo, sono Matilde, due giorni fa Anna mi ha detto che ti ha visto al Gasoline, ti eri dimenticato che dovevamo vederci? Richiamami, ciao.”
Click.
“Ciao tesoro, sono mamma. Vai a fare un giro a Villa Chiara, non è giusto che ci vada sempre Francesco, è anche casa tua, sai? Lilia dice che sono almeno due mesi che non ti fai vedere. Richiamami, ciao tesoro, baci... E chiama tuo fratello.”
Click.
“Sempre questa segreteria...Sono Sofia. Non ti darò tregua Matteo, devo parlarti, ti lascio il numero...”
Click.
Alzo gli occhi al cielo mentre cancello di default tutto ciò che la segreteria contiene. Non ho tempo per queste stronzate.
Doccia. Take way messicano. Sigaretta. Divano e sempre rock in sottofondo.
National Geographic.
Riguardo le foto all'interno. E' in mezzo al deserto afgano, con una macchina fotografica al collo e una in mano, che sta parlando con un marine, il doppio di lei. Sono presi di profilo. E poi foto di guerra. Crude. Eppure piene di mille parole non scritte.
Chiudo, fissando il nulla.
Fumo.
Bevo.
E sento un sorriso salire.