ipazia
Utente disorientante (ma anche disorientata)
Io no.Pratico quiet quitting da una vita, mi sa.
Comunque si chiama anche orgoglio e rispetto per sé stessi.
Ho costruito prima la mia identità professionale che quella personale. Anche per la tipologia di lavoro che svolgevo.
E sulla mia identità professionale avevo poggiato tutta una serie di sistemi di "ancoraggio" diciamo e di gestione di me.
Non penso sia solo questione di orgoglio e rispetto.
Ma una questione di priorità e equilibrio dinamico.
La soddisfazione del pensare che si trasforma in fare e l'appagamento di un percorso.
Come in tutte le cose, il punto fondamentale è la non cristallizzazione, la non assolutizzazione.
Il queit quitting che mi incuriosisce è legato ad una concezione del benessere. Ed è una rivoluzione culturale che va a toccare parecchi ambiti, a partire inevitabilmente dalla famiglia.
Al saper dire ad un certo punto "ma sai che c'è? è più importante andare a vedere il mondo"
E questo non vale solo per il lavoro, ma vale per tutti i sistemi in cui si resta incastrati.
Dal lavoro al matrimonio.
Mi piacciono questi ragazzini che stanno discutendo - chi sapendolo e chi no - i modelli di riferimento.
A partire dall' * e dall'affermazione forte che la sessualità è una espressione della personalità e non una sudditanza di genere.
La nostra generazione e quelle precedenti hanno incastrato dentro il concetto di sacrificio per.
Quanti fanno un lavoro che odiano, della merda, che succhia loro energie invece che stimolarli pur di mantenere la famiglia?
Quanti passano la vita in relazioni insoddisfacenti perchè PENSANO di non avere alternative?
Etc etc
Pur di non rompere gli assetti?
E' questo il queit quitting interessante.
Non il sacrosanto diritto di avere una qualità della vita dignitosa in ambito lavorativo.
Cosa che comunque in moltissimi posti di lavoro non è.
Anche per responsabilità dei lavoratori stessi.