Lo so bene.
Del resto anche il carceriere è interessato ai propri carcerati.
E lo era anche il mostro di Firenze prima di colpire.
Infatti.
questo mica è controllo, è sindrome del cavalier servente. e ce ne sono di tipe cui piace essere trattate da regine
Ma che cavalier servente! È una via di mezzo tra il bimbetto e il rincoglionito.
Poi conosco bene tutti e capisco che si sono trovati con bisogni che si incastrano.
Il mio ex era ipercontrollante, ma proprio per carattere. Era (credo che sia ancora

) di quelli che dovevano avere un po' la situazione di tutti quelli che gli erano vicino "sotto controllo ". Io sono invece abituata ad immaginare le persone bene

. Il che vuole anche dire che se così non è, se c'è un problema, mi venga detto. Poi vabbè, già premesso

, la fine della mia storia non fa troppo testo. Era diventato dispotico, quindi dovevo essere dove decideva lui, anche quando non si era insieme. E partivano telefonate in cui l'incipit era immancabilmente "dove sei?". Non era casuale, o per chiedere (un po' un "dove sei di bello?", per dire, è credo che sia presto chiara la differenza). Ecco: una roba così non la sopporterei più
Oggi ho fatto una riflessione stimolata dal fatto che mia figlia è al mare.
Quando mi scrive io la “colloco” dal punto di vista spaziale a casa, al lavoro e adesso in spiaggia. Non mi succede con tutti coloro con cui mi scrivo, ma quasi tutti. Nel forum no.
Allora ho capito che la mia mente funziona così. Ma colloco le persone anche se non siamo in contatto.
Probabilmente chi ha problemi di controllo potrebbe avere difficoltà di collocazione. Magari per esperienze infantili che hanno creato insicurezza.
“Freud.
Il padre della psicanalisi aveva un nipotino, Ernst.
Un giorno il piccolo – aveva 18 mesi – si mise a trafficare con un rocchetto di legno. L’oggetto era avvolto da una cordicella e il bambino lo gettò oltre la cortina del lettino, facendolo sparire, per poi ritirarlo a sé con allegre esclamazioni.
L’operazione gli diede tale soddisfazione da ripeterla più e più volte.
Freud capì che le sue teorie erano giuste.
Il gioco per i bambini è come il sogno per gli adulti.
Un luogo dove rimettere in atto esperienze psichiche forti o dolorose, ansie o paure.
E provare a ripararle, anche attraverso la ripetizione.
Diventandone in qualche modo padroni.
Il piccolo Ernst, pur non protestando esternamente, soffriva per le numerose assenze della madre.
E quel rocchetto di legno lo aiutava a sopportarne la separazione.
A vederla fuori da sé, a dominarla, forse anche a vendicarsene. Addirittura riuscendo, nel gioco, a trarne piacere.
“Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere”, scriverà poi Freud.”