Sentite questa...
Quella bella (e pericolosa) e quella brutta. C’era zitella e zitella
C’era la zitella. Era la donna che, passata
l’età convenzionale per prender marito,
si ritrovava a trascorrere da sola la vita. Ma
c’era zitella e zitella. C’era la zitella bella.
C’era la zitella brutta. La zitella brutta (brutta
secondo i canoni estetici correnti al momento)
era la più tranquillizzante. Gli umoristi
di professione la rappresentavano con la
faccia storta e bitorzoluta,
come una strega
disneyana.
Spesso la facevano vogliosa. A inchiodarla
alla sua infelice solitudine era stata
la natura matrigna, che aveva deposto pochi
doni nel suo canestro.
Risentita, la zitella brutta poteva avere sviluppato
un cattivo carattere, poteva essere
diventata una moralista inveterata, poteva
comportarsi come una vicina di casa intollerante
e insopportabile, poteva essere aggrappata
in modo esclusivo al suo piccolo mondo
di solitudine. Ma non era una minaccia per
nessuno. Al massimo poteva ispirare pietà,
come un essere che per colpa non sua non
aveva potuto aderire a quel ruolo di moglie
e madre che solo potevano realizzare il destino
e le aspettative di una donna. Non era a
quella zitella che si riferiva un deputato inglese
quando nel 1922 dichiarava alla Camera
dei Comuni: “Una donna sola è una atrocità.
Un atto contro natura. Le donne non
sposate creano un grave pericolo… la nostra
grande civiltà può declinare…”.
La zitella bella era più inquietante. La zitella
bella non poteva essere esorcizzata né
con il riso né con la pietà. Il sentimento che
suscitava era il sospetto. La zitella bella
non era zitella perché nessuno l’aveva voluta.
Era zitella perché dentro di lei c’era
qualcosa che non andava. Nessuna donna
normale avrebbe altrimenti rinunciato all’unica
scelta che poteva appagarla, al suo
ruolo di sposa e di madre.
“Sei quasi brutta, priva di lusinga/ nelle
tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia
buona e casalinga,/ ma i bei capelli di color
di sole,/ attorti in minutissime trecciuole,/ ti
fanno un tipo di beltà fiamminga”. Poeta,
Guido Gozzano finge. Nei versi avrebbe potuto
amare la signorina Felicita, “dalle iridi
sincere, azzurre d’un azzurro di stoviglia”.
Nella vita reale amò tormentato la poetessa
Amalia Guglielminetti, dallo sguardo di fuoco,
tormentata, incapace di legarsi, destinata
per la vita a restare sola. Amò quella che per
il mondo era una zitella inquietante, che non
solo faceva un mestiere da uomo, ma rifiutava
il ruolo che la natura e la società avevano
riservato alla donna.