Ennesima discussione di uomini sulle ragioni per cui là DONNE non fanno figli.
Come se i figli nascessero per partenogenesi (Tipo di riproduzione sessuata consistente nello sviluppo di uova non fecondate, che si può verificare sia negli animali, sia, più raramente, nelle piante, e può essere spontaneo (
p. naturale ) o provocato artificialmente (
p. sperimentale ).)
Se gli uomini non desiderano figli o non hanno disponibilità ad assumersene la responsabilità, le donne non fanno figli.
È vero che è stato storicamente dimostrato che le nascite diminuiscono con l’aumento della scolarità e l’occupazione femminile, perché l’istruzione rende le donne consapevoli di non essere macchine riproduttive. Ma è intuitivo che le condizioni generali di vita, di lavoro, di servizi che possano consentire di lavorare ed essere madri sono importanti.
Ma gli uomini non vengono mai considerati.
Sono un elemento irrilevante nella decisione di avere figli?
https://www.corriere.it/lettere-al-direttore/24-09-2023/index.shtml
Caro direttore,
continuo ad essere sorpreso dal dibattito in corso sulla denatalità e le conseguenze negative sulla tenuta del welfare. È certamente una realtà a cui porre rimedio, ma sembra mancare una consapevolezza sull’opportunità di recuperare coloro che sono ai margini del mercato del lavoro ovvero gli «inattivi». I dati Istat per il primo trimestre di questo anno ci dicono che abbiamo una riserva di forza lavoro (tolto chi studia, chi è in attesa della pensione e chi ha qualche altro motivo non facilmente superabile a breve) che può essere recuperata ad attività produttive di ben 4.275.000 persone, di queste l’80,9% sono donne. Se quindi si consentirà alle donne di partecipare al lavoro le donne salveranno il nostro welfare futuro ma la maternità dovrà diventare un valore realmente tutelato e sostenuto da questo Stato e dalla società tutta. Anche le aziende dovrebbero dare il loro contributo al rispetto sociale e alla valorizzazione della maternità, e il conseguente lavoro di cura dovrebbe diventare sempre più equamente partecipato. Tutto questo richiederebbe un cambio di mentalità, da realizzarsi nel poco tempo disponibile, tanto da essere una vera e positiva «rivoluzione culturale». Ricordo inoltre che un lavoro è «povero» non solo per il salario che ti può dare ma per i suoi contenuti, per la limitatezza delle relazioni che genera, per il mancato diritto al rispetto e alla valorizzazione, per l’assenza di possibili progressioni di carriera e di crescita professionale.
Luigi Pitton
Caro signor Pitton,
Senza una piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro non solo non si realizza una delle condizioni essenziali della parità ma si blocca la crescita del Paese. Ce lo ripetiamo continuamente, il tema è al centro di programmi e promesse. Ma alla fine siamo ancora fermi a un tasso di occupazione femminile regolare del 50 per cento, molto più basso della media dei Paesi europei con cui ci confrontiamo. Solo se cresce il numero di contratti regolari (soprattutto al Sud) possiamo sperare di costruire una tutela effettiva della maternità e possiamo ragionare su tutte le misure (incentivi fiscali, asili nido, congedi, condivisione dei pesi in famiglia) che servono a invertire un tasso di natalità in crollo da anni. Alle culle vuote dell’Italia non si risponde con gli appelli e la propaganda ma con atti concreti e utili, più utili di tanti sussidi che spargono denaro pubblico sottraendolo alle cose davvero importanti.