Io invece non voglio negativizzare del tutto il concetto di perdono, che può avvenire anche all'interno di quella com-prensione di cui parlo.
Posso com-prenderti e ad esempio accettare di perdonarti (che non significa altro che cessare di avere un sentimento di risentimento) per esserti comunque scordata, anche solo per un momento, di me, in relazione a te.
E come posso scordarmi che tu, per un attimo, ti sei scordata di me? Magari capendo che non ti sei scordata di me per un altro amore, ma per te stessa, per un bisogno di ritrovarti, di affermarti, o anche solo di renderti conto fattivamente di quanto possano trascinarti giù certe questioni sospese, o che limiti riescano a farti superare, magari per avere quel coraggio di affrontarle che non hai trovato al di fuori del rischio concreto di perdere.
Come i tossici che si decidono ad uscirne solo quando si fanno l'overdose.
Perché possiamo accettare che per atto di egoismo l'altro definisca il suo limite, come che per lo stesso atto di egoismo invece il "traditore" abbia avuto necessità di superare un limite proprio a sua volta.
E' ovvio che siamo, bene o male, sempre ricondotti prima a noi stessi che all'altro, in quanto con l'altro non possiamo dialogare in nessun modo se prima non c'è una definizione del nostro proprio essere.
Tu parli di questo sguardo amorevole, ed è vero che se si perde forse non vale la pena fare un percorso sofferto come quello di cui io parlo, ma quello che mi chiedo è se svanirebbe comunque nel caso si guardasse la cosa da questa prospettiva, laddove, ovviamente, ci sia una verità di fondo e non sia solo una scusa arroccata.
L'ho proposta anche sopra la frase del libro "l'amore ai tempi del colera" che riporta, Si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna, il cuore ha più stanze di un bordello.
Mi chiedo come GG Marquez ha vissuto, o avrebbe vissuto, un tradimento con questa forma mentis... e se avrebbe perso lo sguardo amorevole sapendo che la sua donna magari ha cercato altrove una parte di sé, e non una parte di un altro essere umano.
Come sempre, dipende quanto e come si riesce a guardare una data situazione la persona che l'ha vissuta.
Che lo si possa fare solo consensualmente è di fatto un dato di fatto.
Io lo propongo però come uno spunto, che può dare un senso diverso ad un dolore, che se proprio dobbiamo viverlo, ritengo sia meglio che quantomeno ci insegni qualcosa o ci porti un qualcosa in più di ciò che avevamo.
Per la tua domanda invece intendo dire che, almeno nelle regole teoriche del mondo, la relazione genitore-figlio dovrebbe (e dico dovrebbe in quanto ne ho esperito tutte le eccezioni possibili) muoversi su una fissità che ne rappresenta il perno, ovvero che il figlio sia il punto fisso della propria esistenza, l'asse che tiene in magnetico equilibrio le scelte successive al diventare genitore e la ridefinizione di sé stessi in quanto individui non più scardinabili da un legame imprescindibile. Tutti hanno avuto buoni e cattivi genitori al tempo stesso e per tante ragioni, ma credo pochi non siano stati di fatto questo punto fisso. Un genitore che magari ti schiaccia non si potrebbe comunque dire che stia facendo un buon lavoro, ma se lo fa è probabile che lo stia facendo comunque "per te", per una forma di bene. Un genitore che sceglie la morte al figlio, o che non trova nel figlio una ragione di vita sufficiente per vivere a sua volta, non solo scardina il figlio dall'asse di cui parlavo ma, facilmente, farà si che un asse di equilibrio questo figlio non lo avrà, non riuscirà a centrarsi in se stesso perché privato di una conferma forte al suo valore che sarà molto dura ricostruire.