Sì, là fuori è un mondo difficile. Sì, lo era anche prima di Sanremo.
massimo giuliani 2 Febbraio 2020
Sì, là fuori è un mondo difficile. Sì, lo era anche prima di Sanremo.2020-02-02T14:35:22+00:00
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Se un marziano fosse sbarcato in Italia nel gennaio 2020 avrebbe pensato con marziana invidia di essere arrivato in un paese in cui sui giornali e nei media si discute abitualmente dei testi delle
canzoni.
Non è vero niente, tranquilli. Della musica continua a fregare poco e niente ai più, se non come orpello di eventi televisivi o come oggetto di qualche bella polemica mediatica di quelle che ci riempi le colonne per settimane e che dividono buoni e cattivi.
Una premessa necessaria, per dire due cose sull’affare
Junior Cally, è che a me quella musica interessa ben poco. Non ho nessun coinvolgimento e ho poca curiosità per quella forma espressiva se non quella che si deve a un fenomeno sociale che è degno di considerazione perché esiste ed è voce di una realtà. Dunque non è per simpatia personale che mi prende un certo imbarazzo davanti alle polemiche di chi vorrebbe espellere il rapper dal festival di Sanremo.
Un’altra premessa è che, pur essendo interessato alle questioni etiche della narrazione, quello non è il mio “specifico”. Ammetto che non sono in grado di avere una posizione definitiva su questioni come quelle che hanno riguardato Gabriel Matzneff o Roman Polanski. Metto in conto che dirò anche cose imprecise quando mi avventurerò al di fuori delle faccende che conosco meglio. Ma ho una certa confidenza con le cose di musica e credo di essere stato formato da ogni singolo solco su cui ho calato la puntina da quando ero bambino. Non sempre da quei solchi ho ascoltato storie di gente virtuosa e quando dico che mi hanno formato non intendo che mi hanno reso uno stupratore, uno spacciatore o un violento. Intendo che buona parte della simpatia che provo per l’umano nella sue manifestazioni, e per le persone al di là dei loro peccati, mi viene probabilmente da lì.
Venendo alla questione di cui si parla, si chiede da più parti una specie di
dannazione per un cantante per via di un testo scritto qualche anno fa, che racconta in maniera cruda una violenza esercitata su una donna. Racconta molte altre cose, veramente, ma quel passaggio è circolato dappertutto a dimostrazione dell’indegnità del soggetto.
C’è da dire che il confronto verbale con i fautori dell’espulsione è piuttosto complicato. Parlare con qualcuno che sposta continuamente il punto è impegnativo.
“Junior Cally inneggia a un reato!”
“No, guarda, non inneggia, casomai lo racconta, non è la stessa cosa.”
“Già, adesso è un genio.”
“Non l’ho detto, che c’entra?”
“Beh, ma è diseducativo per i giovani.”
“Allora è un altro problema ancora. Ma non è dimostrato da nessuna parte che una canzone su un reato induca a commettere un reato.”
“Però è roba brutta, non è arte!”
“Vabbè, ma allora dimmi di che cosa vuoi parlare, di grazia!”
Non c’è molto di razionale in questa campagna. A volte alla fine di queste discussioni puoi velatamente essere accusato di comprensione per gli stupratori. Quando leggi che hanno querelato il presentatore di Sanremo per “istigazione alla violenza verso le donne e le forze dell’ordine, odio e oltraggio alla
moralein violazione della Costituzione” per una canzone che un altro tizio ha scritto qualche anno fa, capisci che tutto questo è piuttosto irragionevole e che si sta parlando di qualcosa dai contorni un po’ meno netti.
In una specie di
giovanardizzazione della discussione, persone solitamente progressiste e illuminate firmano appelli in cui usano vertiginosi giri di parole per non pronunciare la parola
“censura”, ma quello chiedono. Tipo: “Cara RAI, lungi dall’auspicare qualunque forma di censura, vorremmo portare alla vostra attenzione la necessità di non far salire questo signore sul palco”. E ci vuole tanta flessiblità per definirlo un “boicottaggio”: se boicotti spegni la TV o cambi canale, non chiedi alla TV di non far cantare un tizio.
Persino ordini e organismi professionali scrivono appelli con argomenti come la rappresentatività della cultura musicale italiana nel festival, in un vociare in cui saltano contesti e confini e tutti hanno competenza istituzionale su qualunque cosa.
Tutti uniti, da destra a sinistra è una sola voce.
Ci siamo svegliati una mattina di gennaio e abbiamo scoperto che le canzoni non possono raccontare storie non edificanti, efferate, violente. Non era mai successo. Mai successo, per lo meno, all’interno di una cerchia che non si identificava nelle posizioni censorie e repressive di una certa politica conservatrice, chiamiamola così. Certo, se devo vedere un aspetto positivo in questa cagnara, è il fatto che si è scatenata intorno a una immagine di violenza contro una donna. Significa che quell’argomento è sempre più un argomento “sensibile”. Benissimo.
Però ero abituato al fatto che tutti noi che guardavamo film, leggevamo libri e ascoltavamo canzoni fossimo d’accordo su un po’ di
fondamentali: ad esempio che l’arte racconta la realtà per quel che è. Anche quando non è un luogo ospitale, anche quando è crudele. Non era mai stato un problema.
(Faccio una parentesi: non mi interessa qui discutere se le canzoni del cantante di cui stiamo parlando si possano definire “arte”. Mi aspetto l’argomento perché l’ho visto tornare più volte, ma qui definisco “arte” una creazione che fa riferimento a un ambito artistico codificato, e definisco così il rap che va a Sanremo e Jimi Hendrix senza che questo costituisca un accostamento di valore fra i due. Non è questo il punto e trovo alquanto scorretto l’argomento “non sarà mica Alighieri”. Non ho intenzione nemmeno di discuterne e se pensate che sia rilevante interrompete pure qui la lettura.)
Ice-T
Dicevo, l’arte racconta il mondo non perché sia bello da mostrare. Tutta la musica di cui ci siamo nutriti viene da una sorgente: la musica nera dell’inizio del secolo scorso. Non era una musica colta, non era roba da persone bene
educate. Nasceva da un contesto di sofferenza ed emarginazione. Nasceva da persone che la violenza la conoscevano per davvero. Raccontava quelle vite al margine con la loro disperazione. Quando quelle canzoni parlavano di sesso lo facevano in un modo tale che molti ringrazierebbero di non conoscere l’inglese. Quella musica è cambiata negli anni, ha generato nuove forme, ma la vocazione di raccontare il lato oscuro della strada l’ha conservata.
Un altro po’ di cose erano abbastanza ovvie fino a qualche settimana fa. Per esempio che uno che racconta una storia non è il protagonista di quella storia. Che il personaggio non è l’autore e che nemmeno l’
autore e il
narratore sono la stessa persona. Manzoni, che congegna non solo la storia dei Promessi Sposi ma anche la voce che la racconta, non è la voce che la racconta. (Se vi va di complicarvi la vita c’è Seymour Chatman che non solo lo spiega bene in Storia e discorso, ma vi spiega che c’è persino un “autore implicito”, che è un’altra cosa ancora di cui, se volete saperlo, non ho capito molto: lo dico per dire che è un argomento che non accetta appiattimenti). Il narratore, il modo in cui parla, il modo in cui racconta, sono scelte dell’autore. Se è eccessivo dire che il narratore è quasi un personaggio, di certo l’autore non parla in quanto “sé stesso”. Decidere di credere il contrario, semmai, può essere una specie di
patto provvisorio, fa parte di quella sospensione dell’incredulità che invita a partecipare a una storia come se fosse vera.
(...)
Dice che, per esempio, la
responsabilità personale è stata fino ad oggi espulsa da questo dibattito. È sempre colpa di Amadeus se quel mondo arriva alle orecchie dei ragazzini in un modo non filtrato adeguatamente? Se all’ora di Junior Cally i bambini non sono dove dovrebbero essere, cioè a fare le loro necessarie dieci ore di sonno? (Sembra tanto un argomento di antico buon senso, ma nella mia bolla l’ho sentito usare solo da
Claudia Boscolo: leggetela qui, a proposito). E fare da
filtro per quel mondo che non si può eliminare neanche a volerlo, è solo una questione di cancellarne le tracce, come per il fuso della Bella Addormentata, o è anche stare accanto ai ragazzi e discuterlo
insieme?
Dicevo all’inizio che del personaggio non so nulla, di quella musica so poco, quell’immaginario non è il mio, Sanremo per quanto mi riguarda può sprofondare (il festival, dico) e in fin dei conti la polemica di queste settimane non mi tocca direttamente in nessun modo. Però mi preoccupa veder montare questa voglia generale di censura. Mi atterrisce che si affermi il principio che le canzoni che parlano di realtà torbide siano una specie di
veicolo promozionale della violenza.
Da domani su questo blog si torna a parlare della musica che ci piace ma, davvero, se di questo passo a qualcuno venisse in mente di selezionare le cose che possiamo e quelle che non possiamo ascoltare perché non sono in armonia col suo personale modo di stare al mondo:
no, per favore.
Se un marziano fosse sbarcato in Italia nel gennaio 2020 avrebbe pensato con marziana invidia di essere arrivato in un paese in cui sui…
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