Non è il vuoto piacevole che vedo.
Non a caso mi riferivo al simulacro.
Non ci vedo vacuità.
Una forma vuota, è altro che vacua.
Se ci pensi, per quel che ne possiamo concretamente sperimentare, la morte è pieno. Non vuoto.
Sperimentiamo la morte come la mancanza di chi è vivo in relazione a chi è morto.
Un vuoto piuttosto pieno...non trovi?
Sicuro di allenarti alla morte?
È questo che mi lascia perplesso, la vacuità la sento più come una caratteristica intrinseca della vita, la morte invece come non-vita.
Se percepisci la vacuità sei vivo, non percepire nulla è la morte. La vacuità è comunque spazio, vuoto, ma spazio in cui vivere.
Non so se sono riuscito a spiegarmi, trovo molto difficile tradurlo a parole. Ma per me sono sempre stati due concetti molto separati. Boh
Rispondo a entrambi perché trovo delle assonanze nelle vostre critiche - benché l'inconfondibile stile ipaziano appaia più tagliente, ma è solo un'illusione ottica: Feather nel dinguere i concetti afferma "io li distinguo", Ipazia afferma "sono concetti distinti".
Non è una differenza solo di stile, ma proprio di approccio e ha a che vedere col motivo per cui non ci capiamo.
E' come se all'affermazione "in fondo, le mele sono come le pere", Feather mi rispondesse "non capisco, io continuo a vedere le mele diverse dalle pere" (e io questa replica la capisco) e Ipazia invece "non vedi che le mele non sono pere?" (quest'altra la capisco un po' meno).
Ma certo che lo vedo, la mia affermazione infatti intendeva aggiungere qualcosa alla distinzione tra mele e pere.
La vacuità non è il vuoto e il vuoto non è la morte, che invece è piena....
Mah, non voglio addentrarmi in specialismi, pero' la domanda "che cos'è" è la domanda metafisica per eccellenza e non mi interessa minimamente. Presuppone che esista un'essenza delle cose e che ad ogni essenza corrisponda un termine.
Credo invece nel potere appropriativo-creativo delle parole e invece di dire "la morte è x, e x non è y", preferisco dire (come fa anche Feather) "penso la morte come x, e x va tenuto distinto da y".
La differenza è profonda e riguarda proprio il rapporto con le parole.
Per venire al dunque, io penso la morte innanzitutto come un orizzonte insuperabile, quindi come un limite, e in quanto limite allo stesso tempo interno ed esterno alla vita.
E' interno nella misura in cui lo percepiamo, ed esterno nella misura in cui non possiamo farne esperienza se non come orizzonte.
E il vuoto a cui mi riferisco è precisamente il "vuoto di esperienza" della morte, cioè che non la possiamo esperire se non come mancanza di vita.
E pero', credo, questa mancanza di vita possibile ce la portiamo dentro nella vita stessa.
O almeno, io me la porto nella vita stessa.
Da bambino mi aiutava molto l'idea che le più grandi tragedie, avrebbero mostrato la loro vacuità nel tempo.