A me sembra che la battaglia sia ormai persa, da parte della filosofia: basta guardarsi attorno, leggere qualche giornale (per capire che aria tira) o guardare un po' di tv o le pubblicità nella metro (idem) per comprendere che lo spirito filosofico sia esaurito, soprattutto a causa della modalità scientifica di vedere il mondo.
Quando vedo le pubblicità degli shampoo o dei dentifrici o dei pannolini ambientati in presunti laboratori scientifici con personale in camice bianco che scruta nei microscopi; quando leggo (era sull'inserto settimanale del Corriere, tempo fa) che era stato individuato il punto del cervello responsabile del "male" nell'uomo (salvo poi rettificare che si intendeva non il male, ma la violenza: che è tutt'altro); quando sento che tutte le discussioni tra i non analfabeti si fermano davanti al nuovo totem della "neuroscienza", magari neanche sapendo di cosa si tratta e come funziona (neppure grossolanamente), confortati in ciò dalle più recenti news che narrano di "recenti studi dell'Università di Vattelapesca ha dimostrato che", con un punto rosso in un'immagine stilizzata del cervello per dimostrare che lì è situata l'origine del desiderio o dell'amore, allora capisco che c'è ben poco più da fare.
Leggere o rileggere i classici, forse. Ma c'è sempre il limite dello scritto, già segnalato dai Greci rispetto alla cultura orale: lo scritto non può rispondere, né sa difendersi da solo. Occorre avere buoni maestri, o amici ritenuti tali, che possano indicare una strada tra la miriade sconfinata di "considerazioni" o "riletture" o "interpretazioni" - ormai a questo si è ridotta la filosofia accademica -, o col quale aiutarsi a trovare una strada.
Heidegger scrisse brutalmente che "la scienza non pensa", ed è questo ciò che la distingue realmente dalla filosofia: la scienza non riflette cioè su se stessa, ma va avanti secondo uno schema ripetitivo.
Provate a fare una domanda ad un medico (esempio banale di professionista di formazione scientifica), che vada oltre la sua preparazione o la sua visione del mondo su di un caso medico, anche di sua stretta competenza: vi dirà "buona domanda" ma poi tace, o "questo non è scritto nei libri", e basta.
Sembra finita, storicamente, a partire da Hegel, proprio colui che, all'opposto di Kant, aveva fatto della "totalità" il centro della sua speculazione: totalità intesa come mediazione.
Kant invece, proprio per trovare dei limiti oggettivi alla conoscenza umana, ne pose dei confini invalicabili, descrivendo in una meravigliosa indimenticabile pagina della Critica della ragion pura il terreno della scienza come un'isola (la terraferma, l'episteme, che in greco vuol dire stare sopra) circondata da un mare in tempesta (la metafisica).
Mi sembra chiaro che se limiti la possibilità della conoscenza alla sola terraferma, allora sulla terraferma non può che vigere la legge della scienza: non puoi andare avanti con elucubrazioni metafisiche prive di riscontri oggettivi. Soprattutto, poi, perché non sono "utili", cioè immediatamente utilizzabili.
Lo codificherà Popper, con il concetto della falsificabilità: la metafisica non la puoi falsificare, dunque non è scientifica, cioè non è vera, e allora a che serve? A chi può importare più, allora, disquisire una vita intera su qualcosa sapendo già, in partenza, che non è vera?
Non bisogna mai dimenticare che la verità è l'istanza originaria della filosofia: se le togli quella, cosa le resta? Altre branche, certo, come l'etica o la filosofia politica: ma puoi proporti di farle tralasciando il concetto di verità?
D'altra parte la scienza ti può dare una risposta sulla verità ad esempio di una legge fisica: ma si tratta nella quasi totalità di questioni quantitative, misurabili.
La qualità però non la puoi misurare.
E neanche l'interiorità della coscienza umana.
L'unico (meglio, il più importante) che tentò una strada diversa fu nella prima parte del 900 il francese Bergson (accento sulla o), considerato non a caso "il grande rimosso del Novecento", del quale negli ultimi tempi ci si inizia ad interessare con maggior vigore, perché attualissimo.
Egli aveva tra l'altro il dono di una scrittura brillante, tanto da ricevere il Nobel per la letteratura: e allora i filosofi che inventavano nuovi termini o scrivevano della "costituzione d'essere dell'Esserci", con tutti i loro seguaci e le loro confraternite, come dovevano considerarlo?
Tra l'altro era francese, non tedesco (patria di Kant ed Hegel, poi anche Nietzsche, Schopenhauer, Schelling ecc.), e tra i due popoli, e rispettivi apparati accademici, non correva certo buon sangue.
Si interessò proprio, tra l'altro, dei rapporti tra scienza e filosofia, ed è interessante notare che la scienza del suo tempo era l'antenata delle nostre neuroscienza: si chiamava psicofisica, cioè la misurazione scientifica (fatta con strumenti dell'epoca) delle reazioni emotive. Per questo le sue critiche, i suoi ragionamenti, le sue riflessioni, stanno tornando a interessare molti, adesso.
Insomma, la vedo dura, sia in sé, dal punto di vista storico; sia anche perché, pur notando l'interesse di alcuni scienziati o pseudo tali verso questioni diverse da quelle meramente quantitative, noto una grande loro difficoltà nel trovare risposte confacenti alle loro domande: non tanto perché non sia possibile rispondervi, ma perché o non sanno cercare o preferiscono limitarsi a scopiazzare, citando o meno, qualche testo (no, qualche riga) di qualche filosofo per placarsi la coscienza, e mostrarsi al loro pubblico come scienziati illuminati, cioè filosofi, cioè quello che in origine non volevano essere.
P.S.: troppo lunga, eh?