https://www.corriere.it/salute/figl...li-219f3b4b-cad3-4a20-a5aa-8a5c188cbxlk.shtml
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“Dobbiamo prendere queste occasioni di riflessione collettiva per capire che abbiamo l’opportunità straordinaria di smettere di pensare che basti chiedere 'come va' per aver assolto il nostro compito di genitori attenti. L’educazione affettiva, sessuale, l’ascolto in famiglia dev’essere qualcosa di sentito, che permetta ai giovani di mettere in parola i propri sentimenti, anche quelli più disturbanti. Smettiamo di porci verso i ragazzi solo con l’idea di
educare (ti dico io cos’è giusto e cosa no) e privare (ti tolgo internet, smartphone…), ma bisogna far sentire loro che vogliamo davvero sentire il loro parere, che il loro pensiero per noi conta”.
Non c’è il rischio di essere troppo accondiscendenti?
«Ascoltare i ragazzi non significa dar loro ragione. Se un adolescente dice cose di cui non siamo d’accordo a livello valoriale non dobbiamo legittimarle, ma dobbiamo legittimare i loro pensieri, far sentire che siamo adulti presenti in grado di riconoscere le loro emozioni. I figli, va ricordato, sono altro da noi. Io credo che questo sia l’insegnamento più grande: accettarli e pensarli come individui da conoscere e rispettare».
Dalla sua esperienza, gli adolescenti di oggi fanno più fatica ad aprirsi con gli adulti?
«I ragazzi oggi non parlano, o parlano poco, perché le emozioni disturbanti infastidiscono troppo gli adulti che non si rendono conto dell’importanza di accogliere ogni tipo di emozione. Se ciò non avviene, inevitabilmente, il dolore muto si trasforma e, durante l’adolescenza, diventa un’azione. Che può essere un’azione contro di sé, basti vedere l’aumento dei suicidi, dei tagli da autolesionismo, dei disturbi alimentari nei ragazzi. Il dolore si trasforma in violenza che può sfociare, oltre che in gesti autolesivi, anche in una strage distruttiva, come in questo caso, confermando tra l’altro che è un dolore che può coinvolgere tutti i giovani e, i numeri ci dicono, soprattutto quelli provenienti da ceti socioeconomici e culturali non particolarmente marginali e disagiati. E questo rimette al centro il vero tema: c’è un dolore mentale che aumenta nell’assenza di possibilità di condividerlo. Credo che solo la relazione, intesa come una relazione identificata con l’altro, ci possa aiutare».
Perché facciamo così fatica a comunicare con i ragazzi, cos’è che non capiamo?
«Viviamo in una società fragile e complessa, bombardati da messaggi e stimoli, non siamo capaci di “stare”, siamo concentrati sul “fare”. Stare non significa stare fermi, ma essere in grado di restare lì ad ascoltare cosa ha da dire l’altro, anche se quello che dice l’altro è la cosa più distante da noi, dalla nostra visione del mondo. Ricordiamoci sempre che i figli sono altro da noi e che il dono più grande che possiamo fare loro è ascoltarli davvero. Invece, tendiamo a mettere al centro la nostra necessità di avere risposte in linea con la nostra linea educativa, così da essere rassicurati e sentirci adeguati come genitori. Che, poi, è un segnale di una nostra fragilità, non di una nostra autorevolezza. Siamo più concentrati a sentire che stiamo facendo il 'bravo papà', la 'brava mamma' o il 'bravo insegnante', piuttosto che stare ad ascoltare cosa hanno da dire i nostri ragazzi che, piuttosto che parlare, preferiscono tacere per non provocare dolori e dispiaceri agli adulti di riferimento».”