Il consenso è una cosa viva.
Non appartiene ai non detti: appartiene al detto apertamente.
Ma soprattutto appartiene al poter dire.
Il fatto che oggi si stia finalmente precisando anche dal punto di vista legislativo è, secondo me, un vero passo di civiltà.
Un passo che tiene conto, finalmente, anche delle categorie più fragili.
Prendiamo un esempio concreto: le puttane — uso apposta questo termine.
Una sex worker può dire “sì” a una pratica, più o meno vanilla, ma non può sapere davvero chi ha davanti.
Quando si pratica con sconosciuti, il non detto non può esistere, a meno di accettare tutti i rischi.
Riconoscere come diritto civile quello che è prima di tutto un diritto naturale — poter smettere, fermarsi, dire “basta” quando qualcosa diventa troppo — è un passo enorme.
Il consenso non riguarda solo il sesso: riguarda il modo in cui impariamo a stare insieme.
A volte dire “sì” serve a cercare connessione, altre volte è paura, desiderio di non deludere, di non sembrare complicati.
Ma il consenso vero nasce dalla possibilità di cambiare idea, senza sentirsi in colpa.
E qui entra in gioco anche la differenza di sguardo tra uomini e donne.
Spesso la visione maschile è stata abituata a vedere il desiderio come conquista: un “sì” sembra un permesso definitivo.
La visione femminile porta attenzione alla relazione, ai limiti, alla fiducia: un “sì” è un accordo, non una rinuncia alla libertà di dire “basta”.
Queste differenze mostrano quanto serva ripensare il modo in cui ascoltiamo e rispettiamo l’altro.
E questo vale ancora di più in una società complessa come quella italiana, dove convivono culture diverse.
Molte donne straniere, che arrivano qui e iniziano a entrare nella cultura occidentale, si trovano a navigare regole, consuetudini e aspettative nuove, spesso contraddittorie.
Il diritto al consenso, che per noi può sembrare chiaro, per chi cresce in contesti diversi può essere difficile da comprendere o da esercitare.
Riconoscere queste difficoltà e dare strumenti concreti per comprendere e praticare il consenso è fondamentale: non è solo una questione di legge, ma di integrazione, di educazione e di rispetto reciproco.
Questa libertà — poter dire, fermarsi, cambiare idea — non dovrebbe essere un privilegio, ma un diritto di tutti.
Anche di chi la società guarda dall’alto in basso: le sex worker, le persone trans, chi vive ai margini, chi non ha voce o non ha ancora imparato a usarla.
Perché se il consenso vale solo per chi ha potere, allora non è consenso: è concessione.
Riconoscere il diritto di dire “no”, anche dentro una dinamica che all’inizio sembrava libera, è un gesto di civiltà.
Significa dire che il corpo di ciascuno conta, che nessuno deve subire il desiderio altrui solo perché una volta ha detto “sì”.
Parlare di consenso, e riconoscerlo anche a livello legislativo, significa ricordare che “non ci sono soltanto io”.
Significa riconoscere che il corpo, il desiderio, i limiti dell’altro hanno la stessa identica dignità dei nostri.
È dire, collettivamente, che ogni scelta coinvolge più persone, e che il rispetto reciproco non è negoziabile.