La rubrica "Cuori allo Specchio" di Massimo Gramellini si trova ogni fine settimana su LA STAMPA.
Meglio rimanere buoni amici (se si può)
ALI*
Equalcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure… e cancello il tuo nome dalla mia facciata...». Oggi mi risuona in testa Rimmel. Il titolo, caro D, certo non si adatta a te, che sei un uomo - e che uomo! - però dovrai convenire che la canzone di De Gregori dice qualcosa di noi, molto di me e del mio dolore, quello che rimane, acuto e pungente, sulla mia pagina di oggi. Mi ripassa di fronte questo anno e mezzo di incontri brevi e intensi e di lontananze lunghe ed estenuanti, spesso incomprensibili per me allora, di abbracci rari e struggenti e di delusioni ripetute e sfiancanti. È difficile per me che ti ho fatto diventare il mio sogno lasciarti andare via, ma più ancora è arduo accettare la realtà. Vedo «un futuro invadente, fossi stata un po’ più giovane, l’avrei distrutto con la fantasia, l’avrei stracciato con la fantasia...», ora invece devo guardare la realtà, voglio guardarla: ho 36 anni, è finito il tempo di inventarmi un mondo parallelo dove immagino che tutto vada come piacerebbe a me. Tu aspetti una figlia da un’altra, tu che mi parli della forza e della sincerità dei nostri sentimenti (!), dici che hai saputo che lei era incinta proprio quando eri pronto a lasciarla (per metterti con me? questo non l’hai mai detto…) e solo ora trovo il coraggio di ammettere la cosa più evidente, che tu hai concepito (voi avete concepito) quella bambina quando era un anno che ci vedevamo! Quale sincerità, quale amore (chiedo a me stessa)? Queste parole non ci sono nemmeno nella canzone di De Gregori… solo la tristezza di una storia finita, di cui l’unica cosa che rimane è una foto. A me non resta nemmeno quella.
«Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo...», non in senso letterale (ci sono stati sempre fin troppi indirizzi a cui le hai spedite), ma nel senso che non hai più bisogno di mascherarti di fronte a me… Io voglio guardarti per come sei, voglio affrontare la situazione per com’è. Se ci riuscirò, sarò io a sovrapporre la tua faccia «a quella di chissà chi altro», a lasciare che il ricordo del tempo (non) insieme voli finalmente libero nel vento che trascina via i rami secchi del passato.
Se ci riuscirò, almeno, sentirò di non aver perduto del tutto la mia dignità. Allora potrò dire che qualcosa rimane. Ma di me, non di te… e tanto meno di noi.
Risposta
Carissima Ali, sono il tuo D. Un uomo - e che uomo! - lievemente confuso dopo che il postino del cuore mi ha fatto bere un intruglio a base di verità. Sono qui per parlarti «dei miei alibi e delle tue ragioni». Le mani scorrono sulla tastiera del computer come in un flusso di coscienza, comunicando ciò che penso e sento davvero: un fenomeno increscioso del quale anticipatamente mi scuso.
Vedi, Ali, «chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma è uno zingaro, un trucco» e tu sei entrata nella mia vita nel momento in cui il rapporto con quell’altra donna si incanalava nell’alveo della noia. Niente più emozioni, brividi, desideri. Avevo bisogno di sentirmi uomo - e che uomo ! - e mi sono preso una cotta per te, che mi consideravi un dio. Provavo una «santa voglia di vivere» e tu, «dolce Venere di Rimmel», eri abbastanza innamorata da accettare il ruolo della ragazza in lista d’attesa. Mi piacevi. Ma questo non significa che fossi pronto ad amarti. Hai dato troppa importanza alle mie parole, sottovalutando il linguaggio dei gesti, cioè il tempo che ti dedicavo: decisamente poco, eppure è «tutto quello che hai di me».
Ho pensato: come potrò tenere il piede in due scarpe senza prendermi almeno una storta? Poi ho visto che ci riuscivo benissimo. È incredibile quante cose impossibili mi riescano, ultimamente. Persino fare un figlio con una donna che non amo. Ma devi capirmi: l’ambiguità della nostra situazione mi stava cominciando a pesare. Mi rendevo conto dai tuoi sfoghi, ma ancor più dai tuoi silenzi, che volevi di più. Non avevo la forza di lasciarti, né la pazienza per mettermi nelle condizioni di farmi lasciare da te. Dovevo fare qualcosa di irreparabile per risolvere la questione. Il mio non è stato un ragionamento, ma uno stato d’animo. E quando la mia compagna mi ha detto di essere rimasta incinta, ho pensato: ecco il segnale che attendevo.
Adesso mi accusi di averti ingannata. E hai ragione. Ma mi facevi troppo comodo per rischiare di perderti. Meglio tenerti buona con promesse vaghe e dilatorie. Ero il più forte. E non perché ero l’uomo - e che uomo! Ma perché dei due ero quello che amava di meno e che aveva un’altra storia. In fondo, io stavo con due donne, tu soltanto con me. Non c’era equilibrio. E in qualsiasi coppia, se uno dei due è in posizione di forza, puoi stare certa che ne approfitterà.
Non incolparmi di questo. Sei tu che mi hai immaginato diverso da quello che ero e hai accettato di giocare in una condizione di inferiorità, abbeverandoti alle mie panzane di maschio opportunista. Se posso darti un consiglio, la prossima volta tieniti alla larga dagli uomini infelicemente accoppiati: sono i più pericolosi. «Meglio rimanere buoni amici, come noi» (fra qualche secolo, naturalmente, perché ho l’impressione che se tu mi incontrassi adesso, mi svuoteresti un pitale di improperi sulla testa).
MASSIMO GRAMELLINI