Senso di colpa

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Lucrezia

Utente di lunga data
Ci sono persone che hanno il senso di colpa per essersi dimenticati di aver pagato un'aranciata trent'anni prima e chi fa schifezze immonde abbastanza serenamente, pensando che faccia parte di un percorso di conoscenza o trovando mille ragioni.
Per voi da cosa nasce questa diversità?
Sappiamo tutti del super-io che è il genitore severo interiorizzato, ma non credo che i secondi siano tutti cresciuti senza regole o addirittura si trovano le due tipologie opposte nella stessa famiglia.
Io suppongo che si possa ricondurre all'autostima.
Non credo che esista un'autostima a prova di bomba, ma che ognuno trovi il proprio orgoglio quanto più sente di avvicinarsi per gli aspetti essenziali alla propria idea di persona che vorrebbe essere (sì lo so è uguale al super-io e richiama la formazione dell'identità).
Ma chi ne fa di tutti i colori che persona vuole essere? Pensiamo a Pazza che dice che cosa sarà lo scoprirà solo vivendo. Col cavolo chi vuoi essere lo costruisci tu, non solo con gli studi formali.
Voi avete sensi di colpa per l'aranciata?
Io credo che l'unità di misura del senso di colpa sia il proprio senso di giustizia; che non è quasi mai applicabile in maniera teorica ad una categoria di stesse cose, ma che cambia di situazione in situazione, in base alla parità o meno di rapporto con l'altro, con lo scopo di garantire un equilibrio di potere.
Esempio: se io maltratto gratuitamente una persona che è sempre gentile con me perchè, in un momento di stress, non sono riuscita a comunicare civilmente, mi sentirò in colpa. Ma se io sono convinta (che sia vero o no) che la apparente gentilezza della persona sia un modo per percularmi cronicamente, non mi sentirò in colpa: rispondendo a un'offesa con quella che è percepita come offesa di pari o quasi entità, si ristabilisce l'equilibrio di potere che era stato turbato dalla prima (vera o presunta) offesa subita. Questo lo teorizzava Hellinger nelle relazioni fra persone, sostenendo che ogni relazione si basa su un equibrio di potere dato dalla pari possibilità di scambiare comunicazioni o 'doni' dello stesso livello di positività o negatività. Sosteneva ad esempio (cosa che trovo interessantissima) che quando qualcuno dà all'altro qualcosa di così grande che non può essere ricambiato, la persona che ha ricevuto il bene dovrà rompere la relazione, perchè vengono a mancare i pressupposti, ovvero, viene a mancare l'equilibrio di potere senza possibilità di ripristinarlo. Questo include: la rabbia e il distacco degli adolescenti dai genitori (la consapevolezza di: non potrò mai restituirti tutto quello che economicamente ed emotivamente hai fatto per me, quindi sento la spinta a rompere il rapporto), ma anche spesso, udite udite, eventi come il perdono di un tradimento (paradossalmente lui sostiene che, quando ci viene fatto uno sgarro, rispondendo con uno sgarro un po' più piccolo, si può procede così fino a tornare in 'parità': altrimenti o il perdono non sarà mai veramente tale, oppure, uno dei due finirà per abbandonare la relazione).

Tutto iò era per dire che: quando non ci si sente in colpa per qualcosa, piccolo o enorme che sia, credo sia perchè ci si sente di rispondere correttamente a ciò che si percepisce come ingiusto. Non si tratta esattamente di una giustificazione, quanto di una necessità di riportare alla neutralità un equilibrio di potere. Non conta quanto enorme o minuscola una cosa possa apparire razionalmente: conta se si percepisce di aver agito giustamente o ingiustamente nei confronti di una persona o un gruppo, in base al modo in cui tu credi la persona o il gruppo si siano posti con te. Se io sono certa che i cinesi siano una minaccia mondiale e si mangino i bambini e non siano esseri umani, è chiaro che non mi sento in colpa a scatenare un genocidio. Mentre magari se mi scordo di pagare l'aranciata al bar di Peppino, che io giudico onesto e povero e che già mi aveva pure offerto il caffè, mi sentirò in colpa e tornerò a pagargliela.
Ovviamente il problema è che i giudizi sono soggettivi. Ci si può convincere di cose che non sono vere. Ma per il soggetto lo sono, e questo basta a scatenare una reazione spesso inconscia. A me, ad esempio, è capitato di svolgere la stessa azione due volte con la stessa persona, a distanza di due anni: la prima volta mi sono sentita in colpissima; la seconda, per niente. Non è l'azione che provoca il senso di colpa, ma il movente.
 

ipazia

Utente disorientante (ma anche disorientata)
Ti spieghi.
Ma per me (sono ripetitiva, lo so, è un mio modo di essere :facepalm::carneval:) tu assolutizzi il relativo.
Non dico che tu non abbia una tendenza alla presunzione, la hai (io no invece tiè :rotfl::rotfl::rotfl::rotfl:) ma io non vedo questi aspetti che si evolvono e non sono statici.
E' vero che si evolvono quando li riconosciamo.
Mi è talmente piaciuta l'immagine della Sagrada famiglia che credo che la userò ancora.
Perché non solo siamo in perenne evoluzione ma siamo proprio una cattedrale.
Non ho ben capito il neretto. :)

Io non penso che evolvano.
Penso siano parti che non possono che essere accettate.

Sono presuntuosa.
Cosa faccio?
Lo nego? Lo maschero? Mi dibatto nel senso di colpa fustigandomi per essere quella che sono?

La mia posizione, per ora, è accettare anche quelle parti di me. Camminarci insieme. Il più possibile in pace.
Non nascondermele e non nasconderle. Ma avvertire semmai che sono anche quello.

E curare altre parti che bilanciano. E che mi permettono di migliorarmi. In tendenza ad un equilibrio che penso raggiungerò solo con la morte.
 

Brunetta

Utente di lunga data
Io credo che l'unità di misura del senso di colpa sia il proprio senso di giustizia; che non è quasi mai applicabile in maniera teorica ad una categoria di stesse cose, ma che cambia di situazione in situazione, in base alla parità o meno di rapporto con l'altro, con lo scopo di garantire un equilibrio di potere.
Esempio: se io maltratto gratuitamente una persona che è sempre gentile con me perchè, in un momento di stress, non sono riuscita a comunicare civilmente, mi sentirò in colpa. Ma se io sono convinta (che sia vero o no) che la apparente gentilezza della persona sia un modo per percularmi cronicamente, non mi sentirò in colpa: rispondendo a un'offesa con quella che è percepita come offesa di pari o quasi entità, si ristabilisce l'equilibrio di potere che era stato turbato dalla prima (vera o presunta) offesa subita. Questo lo teorizzava Hellinger nelle relazioni fra persone, sostenendo che ogni relazione si basa su un equibrio di potere dato dalla pari possibilità di scambiare comunicazioni o 'doni' dello stesso livello di positività o negatività. Sosteneva ad esempio (cosa che trovo interessantissima) che quando qualcuno dà all'altro qualcosa di così grande che non può essere ricambiato, la persona che ha ricevuto il bene dovrà rompere la relazione, perchè vengono a mancare i pressupposti, ovvero, viene a mancare l'equilibrio di potere senza possibilità di ripristinarlo. Questo include: la rabbia e il distacco degli adolescenti dai genitori (la consapevolezza di: non potrò mai restituirti tutto quello che economicamente ed emotivamente hai fatto per me, quindi sento la spinta a rompere il rapporto), ma anche spesso, udite udite, eventi come il perdono di un tradimento (paradossalmente lui sostiene che, quando ci viene fatto uno sgarro, rispondendo con uno sgarro un po' più piccolo, si può procede così fino a tornare in 'parità': altrimenti o il perdono non sarà mai veramente tale, oppure, uno dei due finirà per abbandonare la relazione).

Tutto iò era per dire che: quando non ci si sente in colpa per qualcosa, piccolo o enorme che sia, credo sia perchè ci si sente di rispondere correttamente a ciò che si percepisce come ingiusto. Non si tratta esattamente di una giustificazione, quanto di una necessità di riportare alla neutralità un equilibrio di potere. Non conta quanto enorme o minuscola una cosa possa apparire razionalmente: conta se si percepisce di aver agito giustamente o ingiustamente nei confronti di una persona o un gruppo, in base al modo in cui tu credi la persona o il gruppo si siano posti con te. Se io sono certa che i cinesi siano una minaccia mondiale e si mangino i bambini e non siano esseri umani, è chiaro che non mi sento in colpa a scatenare un genocidio. Mentre magari se mi scordo di pagare l'aranciata al bar di Peppino, che io giudico onesto e povero e che già mi aveva pure offerto il caffè, mi sentirò in colpa e tornerò a pagargliela.
Ovviamente il problema è che i giudizi sono soggettivi. Ci si può convincere di cose che non sono vere. Ma per il soggetto lo sono, e questo basta a scatenare una reazione spesso inconscia. A me, ad esempio, è capitato di svolgere la stessa azione due volte con la stessa persona, a distanza di due anni: la prima volta mi sono sentita in colpissima; la seconda, per niente. Non è l'azione che provoca il senso di colpa, ma il movente.
Molto molto interessante.
Forse è così anche quando esternamente sembra che qualcuno accampi scuse.
 

spleen

utente ?
Gli aspetti negativi a cui faccio riferimento non riguardano nè le gambe corte nè i comportamenti.

I comportamenti sono espressioni esterne di un modo di essere interno.

E posso variare i comportamenti esterni ma se non accetto in partenza la loro provenienza interna, faccio finta. Nell'esterno.

Monto una maschera di bravura che non rispecchia ciò che sono dentro.

Io penso che accettare di essere tante cose, coraggiosa e vigliacca per dire, possa portare ad un miglioramento.

Agire soltanto sui comportamenti non penso che sulla lunga possa portare ad un effettivo miglioramento.

Questo intendo.

Accettare non è perdonare e neanche giustificare.

Accettare è guardare anche con sguardo spietato e impietoso al proprio essere. Dirsi la verità. Senza farsi sconti.
E da lì iniziare ad assumersi la responsabilità di se stessi. In termini di essere, prima che di fare.

Il fare discende.

Concretamente, io so di poter essere presuntuosa. E' inutile che faccia finta di essere umile. Nei comportamenti esterni.
Sono presuntuosa. E' una parte di me.

Schiacciarla non mi porta a niente. Far finta di non esserlo esprimendomi in comportamenti che parlano di umiltà ma non lo sono internamente mi sembra ipocrita.
Bilanciarla invece, sviluppando e curando la capacità di mettermi in dubbio per esempio, porta a farmi avere comportamenti che mi permettono di imparare e limitare il mio essere presuntuosa in un'umiltà che è realmente essere nella posizione di novizia in molti ambiti della mia vita.

Ma non è costrizione e negazione in funzione della costruzione di una immagine di me rispondente ai valori che ho. E' lasciar espressione alle diverse parti di me. Anche quelle che rispetto alla mia idea di me cozzano e mi mettono in discussione.

Non so se mi spiego..
Ciao cara.:)
Cercare di migliorare se stessi presuppone una immagine differente di se (pur nell'accettazione dei limiti e caratteristiche).
E' su questa specie di frattura, sul riconoscimento di un -meglio di così- che credo si basi l'assunto.
 

Brunetta

Utente di lunga data
Non ho ben capito il neretto. :)

Io non penso che evolvano.
Penso siano parti che non possono che essere accettate.

Sono presuntuosa.
Cosa faccio?
Lo nego? Lo maschero? Mi dibatto nel senso di colpa fustigandomi per essere quella che sono?

La mia posizione, per ora, è accettare anche quelle parti di me. Camminarci insieme. Il più possibile in pace.
Non nascondermele e non nasconderle. Ma avvertire semmai che sono anche quello.

E curare altre parti che bilanciano. E che mi permettono di migliorarmi. In tendenza ad un equilibrio che penso raggiungerò solo con la morte.
Per forza non hai capito: ho scritto in turco.
Forse basta togliere un non.
Io penso che siamo sempre in evoluzione e che il tuo essere presuntuosa è un tuo modo di essere tuo di dieci anni fa e di adesso ma che non sarà magari di te tra cinque anni. Perché una volta accettato si attenuerà o si trasformerà.
 

spleen

utente ?
Io credo che l'unità di misura del senso di colpa sia il proprio senso di giustizia; che non è quasi mai applicabile in maniera teorica ad una categoria di stesse cose, ma che cambia di situazione in situazione, in base alla parità o meno di rapporto con l'altro, con lo scopo di garantire un equilibrio di potere.
Esempio: se io maltratto gratuitamente una persona che è sempre gentile con me perchè, in un momento di stress, non sono riuscita a comunicare civilmente, mi sentirò in colpa. Ma se io sono convinta (che sia vero o no) che la apparente gentilezza della persona sia un modo per percularmi cronicamente, non mi sentirò in colpa: rispondendo a un'offesa con quella che è percepita come offesa di pari o quasi entità, si ristabilisce l'equilibrio di potere che era stato turbato dalla prima (vera o presunta) offesa subita. Questo lo teorizzava Hellinger nelle relazioni fra persone, sostenendo che ogni relazione si basa su un equibrio di potere dato dalla pari possibilità di scambiare comunicazioni o 'doni' dello stesso livello di positività o negatività. Sosteneva ad esempio (cosa che trovo interessantissima) che quando qualcuno dà all'altro qualcosa di così grande che non può essere ricambiato, la persona che ha ricevuto il bene dovrà rompere la relazione, perchè vengono a mancare i pressupposti, ovvero, viene a mancare l'equilibrio di potere senza possibilità di ripristinarlo. Questo include: la rabbia e il distacco degli adolescenti dai genitori (la consapevolezza di: non potrò mai restituirti tutto quello che economicamente ed emotivamente hai fatto per me, quindi sento la spinta a rompere il rapporto), ma anche spesso, udite udite, eventi come il perdono di un tradimento (paradossalmente lui sostiene che, quando ci viene fatto uno sgarro, rispondendo con uno sgarro un po' più piccolo, si può procede così fino a tornare in 'parità': altrimenti o il perdono non sarà mai veramente tale, oppure, uno dei due finirà per abbandonare la relazione).

Tutto iò era per dire che: quando non ci si sente in colpa per qualcosa, piccolo o enorme che sia, credo sia perchè ci si sente di rispondere correttamente a ciò che si percepisce come ingiusto. Non si tratta esattamente di una giustificazione, quanto di una necessità di riportare alla neutralità un equilibrio di potere. Non conta quanto enorme o minuscola una cosa possa apparire razionalmente: conta se si percepisce di aver agito giustamente o ingiustamente nei confronti di una persona o un gruppo, in base al modo in cui tu credi la persona o il gruppo si siano posti con te. Se io sono certa che i cinesi siano una minaccia mondiale e si mangino i bambini e non siano esseri umani, è chiaro che non mi sento in colpa a scatenare un genocidio. Mentre magari se mi scordo di pagare l'aranciata al bar di Peppino, che io giudico onesto e povero e che già mi aveva pure offerto il caffè, mi sentirò in colpa e tornerò a pagargliela.
Ovviamente il problema è che i giudizi sono soggettivi. Ci si può convincere di cose che non sono vere. Ma per il soggetto lo sono, e questo basta a scatenare una reazione spesso inconscia. A me, ad esempio, è capitato di svolgere la stessa azione due volte con la stessa persona, a distanza di due anni: la prima volta mi sono sentita in colpissima; la seconda, per niente. Non è l'azione che provoca il senso di colpa, ma il movente.
Fiuuuuuuuuu!:D
Resta da definire una cosa: La tendenza a considerare il senso di giustizia nell'ambito di un rapporto sempre paritario, da cosa potrebbe derivare?
 

danny

Utente di lunga data
Avere o addirittura mantenere a lungo i sensi di colpa è inutile.
Darsi da fare per rimediare al gesto sbagliato è decisamente più apprezzabile.
Tutti possono sbagliare, ma avere sensi di colpa non è un modo di espiare costruttivo.
O si dimentica o ci si dà da fare.
Rimuginare a lungo su quello che si è commesso, sui propri errori non lo comprendo.
Forse i miei sensi di colpa sono istantanei e mi spingono a cercare un equilibrio immediato, ma nel lungo periodo non ne ho.
 

ipazia

Utente disorientante (ma anche disorientata)
Ciao cara.:)
Cercare di migliorare se stessi presuppone una immagine differente di se (pur nell'accettazione dei limiti e caratteristiche).
E' su questa specie di frattura, sul riconoscimento di un -meglio di così- che credo si basi l'assunto.
Ciao:)

sono d'accordo sul fatto che migliorare se stessi presupponga un'immagine differente di sè.
Io sono nel passaggio prima. (che poi prima non è corretto, che le cose secondo me viaggiano in circolarità, ma serve per individuare sequenze)

E cioè che un'autentica immagine differente di sè, presuppone una effettiva conoscenza di sè e dell'immagine che si ha e che di conseguenza si espone nel mondo.

Se mi racconto storie su di me, usando anche il senso di colpa come mezzo per non avvicinarmi a ciò che sono anche in quelle parti che mi rendono non piacevole e distante dalle attese valoriali, io la vedo difficile tendere ad un reale miglioramento.

Migliorerò un'immagine che non corrisponde a ciò che sono.

E a me sembra una maschera a quel punto.

Il senso di colpa io credo sia uno stimolo a togliere la maschera.
Navigarci dentro serve a tenersela ben vicina al viso quella maschera.

L'onestà io credo che riguardi il rispondere alla tensione di autenticità.

E poi c'è l'aspetto della speranza. Il riconoscimento della possibilità di un - meglio di così- che non strida con ciò che è dentro.

Questa speranza non è scontata. E non riguarda l'autostima.

Riguarda, per la mia esperienza, la rassegnazione al non potersi guardare interamente. Al non poter dire la verità.
Al dover mantenere il segreto di sè.
 

zanna

Utente di lunga data
Ma Lucrezia (che ho quotato) e Ipazia sono sorelle?? O solo zie??:carneval::carneval::carneval:
 

zanna

Utente di lunga data
Avere o addirittura mantenere a lungo i sensi di colpa è inutile.
Darsi da fare per rimediare al gesto sbagliato è decisamente più apprezzabile.
Tutti possono sbagliare, ma avere sensi di colpa non è un modo di espiare costruttivo.
O si dimentica o ci si dà da fare.
Rimuginare a lungo su quello che si è commesso, sui propri errori non lo comprendo.
Forse i miei sensi di colpa sono istantanei e mi spingono a cercare un equilibrio immediato, ma nel lungo periodo non ne ho.
Ciao danny ... è un piacere rileggerti :)
 

zanna

Utente di lunga data
Fiuuuuuuuuu!:D
Resta da definire una cosa: La tendenza a considerare il senso di giustizia nell'ambito di un rapporto sempre paritario, da cosa potrebbe derivare?
Te giochi col fuoco ... SALLO :carneval:
 

Fiammetta

Amazzone! Embe'. Sticazzi
Staff Forum
Ti spieghi.
Ma per me (sono ripetitiva, lo so, è un mio modo di essere :facepalm::carneval:) tu assolutizzi il relativo.
Non dico che tu non abbia una tendenza alla presunzione, la hai (io no invece tiè :rotfl::rotfl::rotfl::rotfl:) ma io non vedo questi aspetti che si evolvono e non sono statici.
E' vero che si evolvono quando li riconosciamo.
Mi è talmente piaciuta l'immagine della Sagrada famiglia che credo che la userò ancora.
Perché non solo siamo in perenne evoluzione ma siamo proprio una cattedrale.
:rotfl::rotfl::rotfl:Che presunzione :rotfl::rotfl::carneval:
 

Spot

utente in roaming.
Io credo che l'unità di misura del senso di colpa sia il proprio senso di giustizia; che non è quasi mai applicabile in maniera teorica ad una categoria di stesse cose, ma che cambia di situazione in situazione, in base alla parità o meno di rapporto con l'altro, con lo scopo di garantire un equilibrio di potere.
Esempio: se io maltratto gratuitamente una persona che è sempre gentile con me perchè, in un momento di stress, non sono riuscita a comunicare civilmente, mi sentirò in colpa. Ma se io sono convinta (che sia vero o no) che la apparente gentilezza della persona sia un modo per percularmi cronicamente, non mi sentirò in colpa: rispondendo a un'offesa con quella che è percepita come offesa di pari o quasi entità, si ristabilisce l'equilibrio di potere che era stato turbato dalla prima (vera o presunta) offesa subita. Questo lo teorizzava Hellinger nelle relazioni fra persone, sostenendo che ogni relazione si basa su un equibrio di potere dato dalla pari possibilità di scambiare comunicazioni o 'doni' dello stesso livello di positività o negatività. Sosteneva ad esempio (cosa che trovo interessantissima) che quando qualcuno dà all'altro qualcosa di così grande che non può essere ricambiato, la persona che ha ricevuto il bene dovrà rompere la relazione, perchè vengono a mancare i pressupposti, ovvero, viene a mancare l'equilibrio di potere senza possibilità di ripristinarlo. Questo include: la rabbia e il distacco degli adolescenti dai genitori (la consapevolezza di: non potrò mai restituirti tutto quello che economicamente ed emotivamente hai fatto per me, quindi sento la spinta a rompere il rapporto), ma anche spesso, udite udite, eventi come il perdono di un tradimento (paradossalmente lui sostiene che, quando ci viene fatto uno sgarro, rispondendo con uno sgarro un po' più piccolo, si può procede così fino a tornare in 'parità': altrimenti o il perdono non sarà mai veramente tale, oppure, uno dei due finirà per abbandonare la relazione).

Tutto iò era per dire che: quando non ci si sente in colpa per qualcosa, piccolo o enorme che sia, credo sia perchè ci si sente di rispondere correttamente a ciò che si percepisce come ingiusto. Non si tratta esattamente di una giustificazione, quanto di una necessità di riportare alla neutralità un equilibrio di potere. Non conta quanto enorme o minuscola una cosa possa apparire razionalmente: conta se si percepisce di aver agito giustamente o ingiustamente nei confronti di una persona o un gruppo, in base al modo in cui tu credi la persona o il gruppo si siano posti con te. Se io sono certa che i cinesi siano una minaccia mondiale e si mangino i bambini e non siano esseri umani, è chiaro che non mi sento in colpa a scatenare un genocidio. Mentre magari se mi scordo di pagare l'aranciata al bar di Peppino, che io giudico onesto e povero e che già mi aveva pure offerto il caffè, mi sentirò in colpa e tornerò a pagargliela.
Ovviamente il problema è che i giudizi sono soggettivi. Ci si può convincere di cose che non sono vere. Ma per il soggetto lo sono, e questo basta a scatenare una reazione spesso inconscia. A me, ad esempio, è capitato di svolgere la stessa azione due volte con la stessa persona, a distanza di due anni: la prima volta mi sono sentita in colpissima; la seconda, per niente. Non è l'azione che provoca il senso di colpa, ma il movente.
Ok...
Ma mettiamo che Peppino ha un sacco di soldi e in più conduce un'attività disonesta. Io sono sua cliente, e so che mi ha fregato più volte facendo la cresta sul conto.
Per caso ho la possibiltà di sgraffignarli 100 euro dall'incasso giornaliero, e so che quei 100 euro mi servono perchè sono tremendamente in bolletta.
...potrei sentirmi in colpa lo stesso a fare un gesto del genere. Non per l'effetto che avrà su Peppino, magari, ma per quello che avrà su di me.
Così come potrei sentirmi in colpa nel mettere fine alla vita di un pluriomicida seriale.
 
Ultima modifica:

Fiammetta

Amazzone! Embe'. Sticazzi
Staff Forum

Nobody

Utente di lunga data
Avere o addirittura mantenere a lungo i sensi di colpa è inutile.
Darsi da fare per rimediare al gesto sbagliato è decisamente più apprezzabile.
Tutti possono sbagliare, ma avere sensi di colpa non è un modo di espiare costruttivo.
O si dimentica o ci si dà da fare.

Rimuginare a lungo su quello che si è commesso, sui propri errori non lo comprendo.
Forse i miei sensi di colpa sono istantanei e mi spingono a cercare un equilibrio immediato, ma nel lungo periodo non ne ho.
:up:
 

Fiammetta

Amazzone! Embe'. Sticazzi
Staff Forum
Ok...
Ma mettiamo che Peppino ha un sacco di soldi e in più conduce un'attività disonesta. Io sono sua cliente, e so che mi ha fregato più volte facendo la cresta sul conto.
Per caso ho la possibiltà di sgraffignarli 100 euro dall'incasso giornaliero, e so che quei 100 euro mi servono perchè sono tremendamente in bolletta.
...potrei sentirmi in colpa lo stesso a fare un gesto del genere. Non per l'effetto che avrà su Peppino, magari, ma per quello che avrà su di me.
Ah certo se sei fondamentalmente onesta, ti sentirai comunque in colpa con te stessa, per aver rotto un tuo principio.
 

ipazia

Utente disorientante (ma anche disorientata)
Per forza non hai capito: ho scritto in turco.
Forse basta togliere un non.
Io penso che siamo sempre in evoluzione e che il tuo essere presuntuosa è un tuo modo di essere tuo di dieci anni fa e di adesso ma che non sarà magari di te tra cinque anni. Perché una volta accettato si attenuerà o si trasformerà.
Ok..adesso ho capito.

E' su quel "attenuerà" "trasformerà" che non ci sono totalmente.

Tenendo fermo l'esempio della presunzione, che è uno dei tanti che si può usare, io non penso che si attenuerà.
E' una parte che mi costituisce. E definisce in interscambio anche con tutto il resto.

Un ingrediente fondante.

Tu usi l'esempio della cattedrale, (bello!), io penso ad una torta (ultimamente sto scoprendo i dolci!!).
Meglio sono bilanciati gli ingredienti fra loro più gustosa è la torta.

Certo posso decidere di togliere alcuni ingredienti, ma cambio la torta a quel punto.

E siccome noi non siamo semplici torte e non possiamo togliere o mettere a piacimento ingredienti al nostro essere, io penso che cercare nello squilibrio un equilibrio fra le varie parti possa portare ad un'interezza che permette benessere sempre maggiore, in relazione con me stessa e poi nel mondo.

Ecco perchè non penso che smetterò di essere presuntuosa. Lo sono.

Saperlo e riconoscermelo mi permette di lasciar spazio all'umiltà, che è un altro ingrediente che mi riconosco. Anzichè usare le mie energie a cercare di non essere quella che sono.
La presunzione potrà sembrare attenuata, ma semplicemente io credo sia migliormente bilanciata.

Ricordi l'assunto per cui "il tutto è molto più della somma delle sue parti"?

Ecco, io penso che quel "di più" riguardi non tanto le parti, quanto il modo in cui le parti vengono lasciate in interazione fra di loro.

Un po' un giocare con se stessi tendendo alla formazione migliore possibile.

Poi ecco, il primo assunto che io sento di avere nei confronti del mondo e che voglio dal mondo nei miei confronti, è l'autenticità. L'essere vera e che sia vero.

E il mio senso di giustizia riguarda fondamentalmente il dire la verità. E tendere alla chiarezza e alla trasparenza.

Il senso di colpa è un velo esattamente alla verità e alla chiarezza.

"Ho tradito. Chi io?????
Nooooo. Io non lo farei mai. Io non sono così."

E giù di sensi di colpa. Che vengono scaricati sull'altro alla ricerca di una fantomatica assoluzione che non cambia in nessun modo i fatti e il dolore. E più che altro non cambia ciò che si è.

E quel giochetto secondo me non permette assunzione del proprio essere come è.
Anche se è molto diverso da ciò che ci si era prefigurati nell'immaginario di sè.
E da ciò che ho fatto credere di essere. E magari non volutamente.
Ma semplicemente perchè se non mi dico la verità su me stesso non posso neanche dirla all'altro.

Ecco perchè io credo che tante persone non si assumano la responsabilità di certe azioni. Semplicemente non ci si riconoscono dentro.
Specialmente quando l'immagine di sè, dichiarata a sè e al mondo, è molto distante dalla realtà.

E più è ampio quello spazio, meno c'è riconoscimento.
E a quel punto anche il senso di colpa decade fino a scomparire.
Nella non assunzione di responsabilità di tanti che fanno e poi sembra non sia successo nulla.

E la mia non è giustificazione.

Credo che il non ricercare consapevolezza di sè e del proprio modo di porsi nel mondo sia una delle maggiori lacune che si possano avere.
Raccontarsela, per dirla male.

E raccontarsela, usando i diversi stratagemmi, resta un non dire la verità. E neanche un ricercarla.
 

Sbriciolata

Escluso
Io credo che l'unità di misura del senso di colpa sia il proprio senso di giustizia; che non è quasi mai applicabile in maniera teorica ad una categoria di stesse cose, ma che cambia di situazione in situazione, in base alla parità o meno di rapporto con l'altro, con lo scopo di garantire un equilibrio di potere.
Esempio: se io maltratto gratuitamente una persona che è sempre gentile con me perchè, in un momento di stress, non sono riuscita a comunicare civilmente, mi sentirò in colpa. Ma se io sono convinta (che sia vero o no) che la apparente gentilezza della persona sia un modo per percularmi cronicamente, non mi sentirò in colpa: rispondendo a un'offesa con quella che è percepita come offesa di pari o quasi entità, si ristabilisce l'equilibrio di potere che era stato turbato dalla prima (vera o presunta) offesa subita. Questo lo teorizzava Hellinger nelle relazioni fra persone, sostenendo che ogni relazione si basa su un equibrio di potere dato dalla pari possibilità di scambiare comunicazioni o 'doni' dello stesso livello di positività o negatività. Sosteneva ad esempio (cosa che trovo interessantissima) che quando qualcuno dà all'altro qualcosa di così grande che non può essere ricambiato, la persona che ha ricevuto il bene dovrà rompere la relazione, perchè vengono a mancare i pressupposti, ovvero, viene a mancare l'equilibrio di potere senza possibilità di ripristinarlo. Questo include: la rabbia e il distacco degli adolescenti dai genitori (la consapevolezza di: non potrò mai restituirti tutto quello che economicamente ed emotivamente hai fatto per me, quindi sento la spinta a rompere il rapporto), ma anche spesso, udite udite, eventi come il perdono di un tradimento (paradossalmente lui sostiene che, quando ci viene fatto uno sgarro, rispondendo con uno sgarro un po' più piccolo, si può procede così fino a tornare in 'parità': altrimenti o il perdono non sarà mai veramente tale, oppure, uno dei due finirà per abbandonare la relazione).

Tutto iò era per dire che: quando non ci si sente in colpa per qualcosa, piccolo o enorme che sia, credo sia perchè ci si sente di rispondere correttamente a ciò che si percepisce come ingiusto. Non si tratta esattamente di una giustificazione, quanto di una necessità di riportare alla neutralità un equilibrio di potere. Non conta quanto enorme o minuscola una cosa possa apparire razionalmente: conta se si percepisce di aver agito giustamente o ingiustamente nei confronti di una persona o un gruppo, in base al modo in cui tu credi la persona o il gruppo si siano posti con te. Se io sono certa che i cinesi siano una minaccia mondiale e si mangino i bambini e non siano esseri umani, è chiaro che non mi sento in colpa a scatenare un genocidio. Mentre magari se mi scordo di pagare l'aranciata al bar di Peppino, che io giudico onesto e povero e che già mi aveva pure offerto il caffè, mi sentirò in colpa e tornerò a pagargliela.
Ovviamente il problema è che i giudizi sono soggettivi. Ci si può convincere di cose che non sono vere. Ma per il soggetto lo sono, e questo basta a scatenare una reazione spesso inconscia. A me, ad esempio, è capitato di svolgere la stessa azione due volte con la stessa persona, a distanza di due anni: la prima volta mi sono sentita in colpissima; la seconda, per niente. Non è l'azione che provoca il senso di colpa, ma il movente.
secondo me Hellinger è un filino paraculo.
 

ipazia

Utente disorientante (ma anche disorientata)
Ok...
Ma mettiamo che Peppino ha un sacco di soldi e in più conduce un'attività disonesta. Io sono sua cliente, e so che mi ha fregato più volte facendo la cresta sul conto.
Per caso ho la possibiltà di sgraffignarli 100 euro dall'incasso giornaliero, e so che quei 100 euro mi servono perchè sono tremendamente in bolletta.
...potrei sentirmi in colpa lo stesso a fare un gesto del genere. Non per l'effetto che avrà su Peppino, magari, ma per quello che avrà su di me.
Così come potrei sentirmi in colpa nel mettere fine alla vita di un pluriomicida seriale.
Beh...se usi la sua disonestà per giustificare la tua, quindi costruendo una sorta di scala in cui tu ti permetti un'azione perchè quella dell'altro è più grave, potresti sentir stridere la questione. Per qualcuno invece è un motivo più che valido per agire gli stessi comportamenti seppur in veste diversa.

Ed è lì il raccontarsela. Agire in risposta alle azioni del mondo.

Ma io credo che un sacco di gente giochi su questo, ossia sull'immagine migliore/peggiore in rapporto a ...., proprio per giustificarsi ai propri occhi.

Che è meglio un sentirsi in colpa. A volte. Avendo comunque ottenuto quello di ci si ha bisogno. E il senso di colpa diventa un buon alibi per non definirsi interamente ai propri occhi.

E cioè definirsi semplicemente ladro tanto quanto quel peppino.

Ma questo significa uscire dalla concezione di relazione, col mondo e con se stessi, come rapporto di potere e di superiorità/inferiorità.
 
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