Avevo sempre pensato che la frattura vera, nelle relazioni, non fosse il corpo che sbaglia, ma la fiducia che si incrina. Ci sono matrimoni che si spengono per fatti, altri che si inclinano per idee: il mio, allora, cominciò a vacillare per una sfumatura, per una parola infilata in una riga come un granello di sabbia in un ingranaggio. Non venivo da un’adolescenza sentimentale indenne: una storia breve, anni prima del matrimonio, mi aveva lasciato addosso una gelosia retrospettiva, quel bisogno impaziente di raddrizzare il passato con la lente del presente. Eppure la nostra vita insieme—vent’anni, tre figli, una casa ordinata di abitudini e complicità—mi aveva guarito in gran parte: mia moglie non aveva mai dato adito a dubbi, il nostro patto era la schiettezza. Finché, in un pomeriggio di riordino, non spuntò quel block notes grande, i fogli con le date allineate, le ore segnate, frasi brevi come lampi: vecchi SMS trascritti a vent’anni, un diario più d’eco che di racconto.
All’inizio lessi per pura curiosità, poi la pudicizia mi tirò indietro: glielo mostrai. Lei sorrise, disse che potevo leggerli, anche insieme. Sfogliai con misura. Gli scambi con un ex: confidenze, dichiarazioni pulite, nessun sottinteso. Altre pagine con amiche. E poi una manciata di messaggi con un ragazzo di una conoscenza brevissima—venti giorni appena—parole leggere, un flirt appena accennato, finché, verso la fine, la prima piega: un bacio condiviso e, subito dopo, il messaggio di lui, più fitto, impastato del desiderio che precede ogni progetto: “Vorrei iniziare una storia vera… mi sto innamorando… visto anche quello che c’è stato tra noi… le passeggiate in riva al mare…”. Mi fermai su quell’inciso: “quello che c’è stato tra noi”. In quella formula vaga la mia mente infilò un significato concreto, come se il non detto fosse confessione e non reticenza. Era il vecchio riflesso che risaliva, la gelosia rivolta all’indietro, travestita da zelo di verità.
Ne parlammo. Lei, lucida, mi disse che quella frequentazione era stata poca cosa: qualche uscita in gruppo, un paio da soli, le effusioni acerbe che appartengono a certi inizi senza seguito; inoltre quel ragazzo si appoggiava a lei con i propri drammi familiari, appesantendo tutto, e in lei non era scattata la decisione di cominciare davvero. Io chiesi più volte, con il tono mansueto di chi chiede e insieme verifica. Lei fu ferma: solo baci. Nulla che si confondesse con l’uso del corpo, nulla di deliberato o clandestino. In verità, non avrebbe avuto motivo di tacere: con noi la regola era dirci tutto. Avrei dovuto accontentarmi—accettare il limite della parola detta una volta, non pretendere che la verità venisse certificata dal sovrappiù di dettagli—ma restai incagliato nella frase del ragazzo, come un gancio sotto pelle. Fu un inciampo senza rumore, eppure da lì prese corpo il tarlo.
Passarono i mesi. La vita riprese il passo normale, ma ogni tanto il pensiero tornava. Fu allora che un caso banale trasformò il dubbio in ossessione: un’amica di mia moglie, via social, incappò in un pavone qualsiasi che, per farsi bello, raccontava di una “avventura focosa” avuta anni prima proprio con lei. Il racconto scendeva in particolari volgari, da spogliatoio. Mia moglie venne da me di scatto, ferita e insieme stupita: voleva denunciarlo, e a ragione. Io, nella mia sobrietà un po’ pavida, la dissuasi: “È stupidità, non dargli peso”. Ma nel segreto del cervello, quella vanteria fece presa dove il vecchio messaggio aveva già scavato. Procurai gli screenshot attraverso l’amica: lessi. C’erano imprecisioni palesi—l’età sbagliata, descrizioni fisiche sfasate, tempi confusi—come a volersi schermare con l’inverosimile. Eppure l’oscenità del tono mi avvelenava lo stesso: la menzogna, proprio perché sbracata, mi sembrava avere il coraggio spavaldo di chi non teme smentite. Mostrai tutto a mia moglie; lei, furiosa per il mio aggiramento e insieme decisa, gli scrisse un messaggio duro, netto. Lui rispose negando di conoscerla. La cosa, in apparenza, si esaurì lì.
Non per me. Da quel momento, ogni tre o quattro giorni, un pensiero cadeva come una goccia sulla pietra: e se? Ricominciavo con domande generiche, poi mirate, poi cavillose. Lei rispondeva, dapprima paziente, poi offesa: “Dovresti preoccuparti di quello che penso io di te, non di lui”. Aveva ragione: non stavo più cercando la verità, cercavo conferme alla mia paura. La memoria, dopo vent’anni, non consegna mappe precise dei luoghi—“Non ricordo se fosse quel lungomare o quell’altro”—ma consegna l’essenziale: “Solo baci.” Io, invece, scambiavo l’assenza del particolare per una prova contro di lei, come se il passato dovesse consegnare scontrini. Così, a ogni risposta, una calma breve; e poi di nuovo il pensiero ritornava, più magro e più acuminato. E con esso cresceva una sproporzione: il niente di un vecchio flirt montato a caso giudiziario, l’ombra d’uno spaccone eretta a testimone, e, di contro, la donna accanto a me che si logorava non per ciò che era stato o non era stato, ma per la mia ostinazione a non crederle.