Rifatta riscrivere in stile Charles Bukowski è tutto un altro pianeta:
Avevo sempre pensato che la vera crepa non fosse il tradimento, ma la fiducia che si rompe.
Non serve un letto sbagliato, basta una parola detta male, una frase lasciata a metà.
È così che comincia a marcire una storia.
La mia non fece rumore.
Una parola, un ricordo, e tutto iniziò a scricchiolare.
Non ero un santo.
Avevo già avuto la mia dose di gelosia, di notti passate a guardare il soffitto.
Eppure, dopo vent’anni con lei — tre figli, una casa, un equilibrio fragile ma vero — pensavo di esserne uscito.
Lei era pulita, sincera.
Io mi fidavo.
Poi un giorno spunta quel quaderno.
Vecchi messaggi, frasi d’amore smozzicate, come sigarette spente a metà.
Li leggo.
E trovo una riga che mi si pianta addosso:
“quello che c’è stato tra noi”.
Una frase di niente.
Ma bastò.
Il cervello cominciò a lavorare come una mosca dentro un bicchiere.
Ne parlammo.
Lei disse che non c’era stato niente di serio, solo un paio di baci, un ragazzo che parlava troppo.
Io volevo crederle.
Giuro, volevo.
Ma le parole del tizio restavano lì, come una scheggia.
Passano i mesi.
Poi arriva un altro idiota, su internet, che si vanta di averla avuta.
Un coglione qualunque che si inventa una storia.
Lei si arrabbia, vuole denunciarlo.
Io le dico di lasciar stare.
Eppure dentro di me qualcosa scatta di nuovo.
Comincio a pensarci.
A rivedere tutto.
A fare domande.
Lei risponde, poi si stufa:
«Dovresti pensare a quello che io penso di te, non a quello che dice lui.»
Aveva ragione.
Ma io ormai non cercavo la verità.
Cercavo solo di non impazzire.
Così andava: qualche giorno tranquillo, poi il pensiero tornava.
Un chiodo che non esce più.
La mia mente faceva a pezzi vent’anni di vita per un dubbio marcio.
E a un certo punto capisci che non è più lei il problema.
Sei tu.
Il tuo cervello, la tua fame di controllo, la paura di perdere qualcosa che forse hai già perso.
La fiducia è come un bicchiere di vino.
Se lo spacchi una volta, non lo incolli più.
Puoi solo bere quello che resta e cercare di non tagliarti.
troppo asciutta. adesso gliela faccio rifare stile Palanhiuk
Comincia come un pomeriggio normale. Una pila di carte, la polvere che brilla nell’aria e il rumore sordo dei bambini al piano di sopra. Stai cercando bollette, o vecchie foto, o forse solo un senso di ordine. E invece trovi un blocco di appunti. Copertina azzurra, spirale arrugginita. Dentro, parole. Parole che non sono per te. Parole che non sapevi esistessero.
Prima le leggi distrattamente. Frasi d’amore, niente di grave. Ma poi il cervello si aggancia, come un uncino:
“ti amo”,
“mi manchi”,
“quello che c’è stato tra noi”. Lo leggi e ti senti scivolare dentro una fossa che si scava da sola. Non importa se è vecchio, se sono vent’anni fa, se lei non era tua. La testa non conosce il calendario. È una macchina difettosa che risponde sempre a una sola parola:
prima.
Le chiedi, con calma, cosa sono. Ti dice: roba vecchia, un ex, due uscite, qualche bacio, niente sesso. Lo dice così, come se parlasse di una febbre passata. Ti fidi. Anzi, credi di fidarti. Ma la tua mente ha un modo tutto suo di non lasciarti dormire. Ti ricordi di una storia di anni prima, una ragazza che ti aveva mentito, e capisci che la ferita non si era mai chiusa. Ti dici che è solo curiosità. Ti dici che vuoi capire. In realtà vuoi solo beccarla in fallo, perché sarebbe più facile accusarla che perdonarla.
Nei giorni dopo non succede niente di visibile. Solo il pensiero che si muove sottopelle. Guardi tua moglie, la stessa donna che ride ai tuoi figli, cucina, lavora, ti abbraccia, e pensi:
non la conosco. Ti inventi domande nuove ogni giorno. “Dove vi siete visti?” “Ti piaceva?” “Perché non mi avevi detto che ti aveva scritto?” Ti risponde, ogni volta, la stessa cosa. Tu ascolti, annuisci, e la sera torni a fissare il soffitto.
Poi arriva la bomba. Una sua amica le scrive: ha conosciuto un tipo online, uno che dice di aver fatto sesso con lei vent’anni fa. Ti racconta tutto con gli occhi sbarrati e la voce ferma. Vuole denunciarlo. Tu le dici di lasciar perdere. È solo un idiota che vuole vantarsi. Ma dentro senti che qualcosa ti si accende. È il vecchio mostro, quello che dormiva sul fondo. La curiosità tossica. L’immaginazione pornografica. La parola
quello che c’è stato tra noi torna a galla, con la bava intorno.
Ti fai mandare gli screenshot. Li leggi. Il tizio scrive schifezze, cose che non meriterebbero neanche di esistere. Ma le parole ti feriscono come se fossero vere. Le leggi una seconda volta, una terza. Ti dici: sta mentendo. Ma lo rileggi, e diventa un film dentro la testa, con lei in controluce. È la mente che fa montaggio automatico: riempie i vuoti con la peggiore immagine possibile.
Le mostri tutto. Lei si incazza, scrive a quell’uomo, lo insulta. Lui nega di conoscerla. Fine della storia, almeno per lei. Non per te. Ogni tre giorni torni sull’argomento. Le chiedi se è vero, se c’è stato qualcosa, se ti ha detto tutta la verità. Lei ti guarda come si guarda un pazzo gentile. Ti risponde. Ti spiega. Ti urla. Ti implora di smetterla. Ma tu sei intrappolato nella parte peggiore di te, quella che preferisce soffrire piuttosto che accettare di non sapere.
Lei ti dice che la offendi, che non ti riconosce più. E tu senti che ha ragione, ma non puoi fermarti. Sei come un tossico in astinenza da certezze. Ogni volta che ti rassicura, la pace dura un’ora. Poi cominci a immaginare di nuovo. Ti chiedi: “E se mentisse solo un po’?” “E se c’è stato, ma non vuole dirmelo?” Non dormi, non mangi. Le domande diventano l’unico dialogo che hai con te stesso.
Dopo sei mesi di marciume mentale, prendi il telefono. Lo cerchi, quel tipo. Lo trovi. Gli scrivi. Gli dici chi sei. Lui ti blocca. Ti sembra una confessione. Lo contatti da un altro numero. Ti blocca di nuovo. Ti senti vittima, investigatore, marito, bambino. Ti convinci che devi avere la verità, come se la verità potesse farti smettere di pensarci. Invece, la verità è solo un’altra droga.
Alla fine riesci a parlargli. Lo chiami. Gli chiedi conto delle sue parole. Lui prima nega, poi tentenna, poi racconta una versione che suona familiare: qualche bacio, due uscite, fine. Niente sesso. È la stessa storia che ti aveva detto tua moglie. La stessa parola per parola. Ti senti stupido. Ti senti svuotato. Ti viene da ridere, ma non ci riesci.
Poi succede qualcosa di ancora più assurdo. Il tipo scrive a tua moglie. Si scusa. Dice che ha inventato tutto, che voleva vantarsi, che non pensava che qualcuno avrebbe collegato i nomi. Tua moglie ti legge il messaggio, e tu ammetti di essere stato tu a cercarlo. Lei si chiude. Ti guarda come si guarda uno sconosciuto. Dice che ti sei fidato più di un estraneo che di lei. E ha ragione.
La notte, nel letto, la senti respirare accanto a te e ti chiedi come hai potuto ridurre tutto a un interrogatorio. Ti dici che l’amore non è un tribunale, ma hai già perso il processo. Eppure, qualcosa dentro comincia a capire. Capisci che non volevi davvero sapere. Volevi solo che lei fosse come te la sei immaginata. Pulita, immobile, intatta. Ma nessuno lo è. E tu meno di tutti.
Passano i giorni. Lei si chiude in un silenzio che pesa più di qualsiasi litigio. Tu provi a spiegarti, a dire che era solo paura. Lei ti risponde: “Hai ferito la persona che ti amava di più, solo perché non riesci a fidarti di niente.” È la frase che ti resta dentro. Da allora la senti ogni volta che provi a giustificarti.
Un anno dopo siete ancora insieme. Siete tornati a ridere, a dormire, a vivere. Ma ogni tanto, quando la vedi chinarsi a raccogliere qualcosa, o quando ti sorride distratta, pensi che dietro quel sorriso ci sia un mondo che non saprai mai. Ti pesa, ma ti fa anche pace. Perché hai capito che l’amore non è conoscere tutto: è scegliere chi credere anche quando la mente urla il contrario.
Adesso sai che la fiducia non si costruisce, si decide. È un salto nel buio che o fai o non fai. E se ti giri indietro mentre salti, cadi.