L'ho chiesto io.
Il resto l'ho già scritto.
Nel mio caso me lo chiese lei, una sera, ero appena arrivato a casa sua, era la consequenzialità di un processo logico, naturale, quel processo che aveva unito due persone così differenti, da otto anni.
Semplicemente eravamo abbracciati a rimarcare che stavamo bene insieme.
Il mondo era estremamente diverso, la società anche, la gente si sposava molto di più, allora, e c’era una specie di speranza nel futuro, nel nostro futuro, in qualcosa che sarebbe stato bello costruire insieme. Mettere su famiglia. La casa io l’avevo già, come ho raccontato le pareti vuote odoravano ancora di pittura.
A nulla in otto anni erano valse le chiacchiere di chi mi aveva detto che ero inadeguato a questo passo, inutili quelle di mi diceva che inadeguata era lei. Era una sorta di ineluttabile incoscienza quella che ci guidava.
Perché lei e non un’altra? Perché non avevo conosciuto nessuna migliore di lei. Perché lei mi aveva voluto a tutti i costi, perché aveva visto qualcosa in me e si era aggrappata con tutte le sue forze a qualcosa che non aveva trovato in altri. Perché era bella e la guardavo rapito di come si muoveva, di quando era assorta nelle sue cose. Perché era di una empatia disarmante, nei confronti di tutti. Perché potevi lasciarla nel silenzio di una sala d’attesa ed andartene per poi tornare a trovarla a confabulare con tutti, con la vecchia signora, col bambino, col signore distinto... Perché si rimboccava le maniche, ogni volta che c’era qualcosa da fare, senza mai lamentarsi, perché aspettava paziente che mi svegliassi a mezzanotte, il sabato sera, quando crollavo affranto alle 18 sul divano di casa sua.
Lo programmammo per l’anno successivo. Tre mesi prima di sposarmi entrai in crisi, in una profonda crisi, una nuova collega di lavoro, una scintillante nuova presenza mi aveva insinuato dei dubbi… o forse solo temevo da morire il mio futuro.
Ma questa è un' altra storia, come si suol dire…
