Sai Spleen..io non la voglio eliminare la Violenza. Non è Violenza in sè che mi fa partire l'embolo.
Credo anzi che sia una componente fondante il nostro essere. Non saremmo quello che siamo senza Violenza.
Io di certo non sarei quella che sono, senza Violenza. Nel bene e nel male.
E Lei, è una parte imprescindibile di me. A cui sono anche affezionata. E di cui mi fido. Sempre di più.
E' il percorso per arrivarci a fidarmi di Lei. Averla come alleata e non come aguzzina, e ancora non lo è. Alleata intendo. Ad essere liberatorio nel suo svolgersi.
Che quando la subisci, che sia esterna o interna poco conta alla fine dei conti, è accompagnata da questo senso di vergogna e negazione.
Quel dire "sono un mostro" e arrossire.
Che negare quel "mostro", vergognarsene, è negare l'essenza di quello che si è. E' rompersi in un qualche modo.
E rimanere ad occhi sbarrati a cercare di ri-riconoscersi quando esce comunque, inatteso e inaspettato.
Perchè per quanto si possa provare a tenerlo rinchiuso con i vari orpelli filosofici e spirituali, è lì.
Non saperlo riconoscere quando risale, trovo sia quanto di più pericoloso possa concedersi un essere umano. Che porta a estremi di violenza e di incapacità di difendersi.
Quella frangia isolata, in cui rinchiudere il male, come se così facendo non potesse più toccare nessun altro e in nessun posto, è qualcosa su cui mi arrovello da un sacco di anni. E ci sono stata in quei posti. E non ho trovato molto di diverso da me. Visto da vicino.
Ed è per questo che continuo a battere sul nominare. Sul dire il nome. Sul non lasciare che strisci silenziosa dietro il cervello.
Che siamo tutti "bravi ragazzi e brave ragazze", ma non siamo soltanto quello. Io non credo di poter essere riassunta in una definizione. E me ne sono data e lasciata dare tante.
Non credo sia sufficiente mettere tutto in un posto, il posto dei "non bravi", dei "mostri" per essere esentati da quello che siamo.
Probabilmente una delle funzioni degli stereotipi sociali a cui affidarsi, la poltrona calda di cui parlava Eratò è proprio quella di definire dei confini certi. Orientanti e rassicuranti.
Per rimanere nelle categorie di giusto/sbagliato; normale/anormale-strano.
E non penso sia una funzione totalmente negativa. Servono anche gli stereotipi e anche i riti.
E' rimanerci invischiati dentro, come se potessero riassumere un'essenza che si stende anche in quei territori in cui si va a mettere l'altro, lo "straniero" da me, il "mostro", che diventa pericoloso. Dal mio punto di vista.
Perchè si prende qualcosa che è anche dentro, lo si mette fuori, convinti che in quel modo lo si possa vedere meglio.
E invece è un gioco di specchi. Incrinati.
Perchè sono d'accordo, che riassumersi dentro uno stereotipo, un'identità preconfezionata è un sopruso che ci si fa. E che provoca frustrazione nera.
E la frustrazione nera è una ferita. Di quelle esplosive ed imprevedibili.
Parlare. Dire. Nominare. Non tanto di quello che è fuori quanto di quello che è dentro.
Io penso sia forse l'unico modo per non uscire da una gabbia per finire dentro ad un altra. O almeno ricordarsi di avere la chiave in mano.
E probabilmente è anche l'unico modo per riattivare una comunicazione che mi sembra proprio interrotta. E non soltanto fra uomini e donne. Ma fra individui proprio.
Che quell'abbraccio di consolazione di cui hai parlato...è anche un abbraccio di pace. Giusto?