La solitudine è un bene troppo spesso misconosciuto, sia per la fretta colla quale si etichetta un pavido senso di smarrimento con un nome troppo altisonante, sia per la confusione colla quale la geografia dei corpi, i quali possono pure essere lontani fra loro in modo del tutto innocuo, viene associata alla ben più potente dislocazione delle affettività.
La solitudine è un fine piuttosto che una causa di ulteriori tormenti, desideri, ambizioni e sfoghi.
Essa va perciò nel novero delle modulazioni della felicità piuttosto che in quelle dell'afflizione e, tanto più è mitizzata come un'erinni urlante piuttosto che una musa del Parnaso, viene stravolta e mal manovrata, l'uno nel pensiero, l'altro nel diporto.
Il tradimento che non è schiavo di costrizioni esterne è sempre un atto di umiliazione, di prostrazione e di sudditanza alle candide voglie, le quali ben poco hanno a che spartire, da un lato, con il meraviglioso solipsismo a tutto tondo che è la vera essenza del solitorio e, dall'altro, con lo sforzo di astrazione e distillazione delle picevolezze e facilità momentanee che, in ultima istanza, sono le pietre miliari del lungo e piagoso sentiero che conduce a quel bene misconosciuto di cui si diceva poc'anzi.
Egli è un salvadanaio che non va mai rotto dalla mano dell'intelligente, l'accumulo delle privazioni, stilite prima ancora che esuli e anacoretiche più ancora che ascetiche, che s'inanellano tra la grossaggine diffusa e la frivolezza ostentata, con fierezza e ficcanza, per giungere al punto in cui la vanagloria diviene un sussurro al vento e la tracotanza una goccia di rugiada a mezzogiorno.
Se è vero che il simile si cura con il simile, allora è avventura del birbo dal seno riottoso ed malamente affollato cercare amplessi furtivi come medicamento, non certo del buon solingo.